Benvenuti!

"Non voglio restare impermeabile, voglio imparare, perchè, come diceva Pasolini, la partenza è il dolore del parto, ma anche la gioia della nascita. Siamo tutti chiamati a partire, del resto siamo un partito non un restato"

Nichi Vendola, Venezia 2005

http://www.nichivendola.it/

NASCE IN TERRA DI LAVORO "RIFONDAZIONE PER LA SINISTRA"


Giovedì 31 Luglio ore 11.30
presso la Federazione PRC di Caserta

CONFERENZA STAMPA

interverrà il Compagno Peppe De Cristoforo

venerdì 20 giugno 2008

Perché non voglio che la Sinistra sia come chiesa ed esercito

di Titti De Simone*
Ho letto recentemente sui quotidiani, che a proposito della proposta politica della mozione 1, il compagno Paolo Ferrero, avanza un punto fondamentale di analisi sulla sconfitta: abbiamo perso a causa del governo Prodi, dobbiamo ritornare nella società e fare come la chiesa e l'esercito. Come modelli ispiratori di questa sua tesi, Ferrero parla dell'utilità sociale degli oratori e delle mense della Caritas, ricordando che in Olanda il partito del pomodoro le ha fatte, e che anche noi dovremmo cominciare. Un assaggio dell'ossatura strategica del partito sociale. Ho cominciato a riflettere sul significato e sul profilo di questa visione e non sono d'accordo almeno per due ragioni. 1) Chiesa ed esercito? Premetto che considero il ruolo di tanto associazionismo cattolico e laico, straordinario, da lì provengo, e ho piena ammirazione di quanti si impegnano in questo spesso indispensabile lavoro, che colma l'assenza di politiche sociali pubbliche, spesso integrandole egregiamente a fronte dei progressivi tagli al welfare. Ma non è di questo che qui si tratta. Piuttosto del fatto che pensando alla sinistra da ricostruire, alla sua tradizione, alla sua storia, al movimento operaio, alle culture critiche di oggi, alla necessità di ricostruire una soggettività anticapitalista che non separi diritti sociali da quelli civili, non vorrei essere né come la chiesa degli oratori, né come l'esercito della ricostruzione. Innanzitutto, una premessa. Crediamo davvero che pur avendo subito una sconfitta storica col referendum sul divorzio e sull'aborto, la chiesa abbia risalito la china grazie agli oratori, e non invece grazie in virtù di una politica sempre più in crisi, sempre più separata dai soggetti sociali, sempre più supina agli interessi delle gerarchie vaticane e dei poteri forti, e affascinata dalla caccia al voto cattolico fino alle derive centriste che dalla Bolognina ad oggi hanno segnato la storia di ciò che fu il più grande partito della sinistra italiana? Voglio dire, la fine della Dc come grande partito dei cattolici ha rappresentato anche l'avvio di una vera e propria diaspora dei cattolici in politica, con la scomparsa di un partito di mediazione, di sintesi a cui interessava innanzitutto la gestione del potere. Quando nel 2000 si svolge il World Gay Pride a Roma, i movimenti riescono a vincere malgrado la forte campagna di opposizione alla manifestazione del Vaticano e delle parrocchie. Vi ricordate che grande manifestazione di popolo? E' stato l'avvio di una stagione importante di movimento in cui la sinistra radicale e con essa i movimenti, con una iniziativa politica diffusa nel paese (che ha agito anche dentro le istituzioni, le amministrazioni comunali, il parlamento) con l'enorme appoggio dei mass media, sono riusciti a creare senso comune nel paese. Era la politica ad essere più indietro allora del paese. Oggi rischiamo che questo quadro si rovesci, e gli oratori hanno alle spalle una grande organizzazione di massa, forse la più grande e potente che esista, appunto la Chiesa Cattolica, che costruisce egemonia culturale e si impone in Parlamento. Fino a quando non si ricostruirà una grande sinistra, un progetto politico di massa, credo che non ne usciremo. Per uscire dalla sconfitta non possiamo limitarci ad un intervento sociale (se non di volontariato nobile e prezioso) ma scisso dalla dimensione politica, (che è esattamente il processo di americanizzazione della politica). Credo che al contrario sia necessario porsi il problema della ricostruzione di un progetto politico e culturale della sinistra di alternativa, in grado di dispiegare un'idea complessiva di società diversa, senza la quale temo che l'egemonia culturale delle destre avrà ancora lunga vita in Italia e in Europa. 2) Poi c'è un'altra ragione che attiene alla cultura politica, che per me non è separata dalla linea, dalla strategia. Abbiamo impiegato decine e decine di anni, per decostruire la mistica umanitaria della chiesa e dell'esercito, (che negli ultimi 15 anni ha spesso coperto le peggiori nefandezze compiute in giro per il mondo, come la guerra nei Balcani) proprio grazie ai movimenti, quello pacifista, quello delle donne, quello GLBTQ, svelandone in realtà l'aspetto prevalente, cioè quello d'ordine e di oppressione, non possiamo sforzarci di immaginare altro? Se non siamo stati disertori, siamo stati obiettori di coscienza! L'esercito fra l'altro oggi si ri-presenta nella peggiore torsione autoritaria e repressiva che lo vede funzionale al restringimento dei diritti e degli spazi di democrazia, vedi nuove leggi sull'immigrazione. Allo stesso tempo, non credo che il sacrosanto "fare società" possa fare a meno della dimensione politica, cioè delle irruzione delle soggettività sociali nella politica e non del suo opposto. Ogni volta che questo paese ha subito dei traumi profondi, c'è stata una sollevazione di popolo gigantesca, civile e democratica, spinta dalle grandi e tradizionali forme di organizzazione politica di massa, (penso al Pci e al sindacato, ma anche alla spinta ideale del '68). E' stato così ad esempio per l'alluvione di Firenze del '66, in cui migliaia di giovani da tutta Italia accorsero nelle forme anche più spontanee per mettere in salvo il patrimonio culturale del paese, ma anche per annunciare un nuovo protagonismo politico di quella generazione. Così fu nel Belice, dopo il terribile terremoto del '69 che segna ancora quella terra. Quella risposta sociale, civile fu possibile perché quella generazione si tuffava nella politica, non si rifugiava nel sociale, ma lo permeava nella dimensione politica. La società irrompeva nella politica, non il suo contrario. Come allora, oggi, io penso che questo sia il processo che bisogna tentare di ricostruire. La domanda di un progetto politico e sociale di cambiamento, di radicale trasformazione. Quando andavo all'Università, negli anni delle stragi di mafia in Sicilia, ho fatto volontariato sociale nei quartieri di Palermo. Ho fatto questo lavoro con l'Arci, l'ho fatto anche aiutando quei sacerdoti impegnati nell'antimafia sociale. Ogni volta che ammazzavano un magistrato, un giudice, un poliziotto, quel lavoro diventava più fragile e solitario, i bambini ai quali facevo doposcuola cominciavano ad assentarsi, le famiglie gli impedivano di rivolgersi a noi. La realtà crudele di quella solitudine sociale irrompeva e travolgeva ogni volta il nostro lavoro. Si doveva ricominciare da capo. Proprio perché ammiro e ritengo indispensabile quell' impegno sociale, so anche che senza il nesso con un progetto politico generale di trasformazione, quel lavoro resta piantato esclusivamente nella sua dimensione sociale, ed è più solo, più fragile. Non si fa società. Non crea senso comune. Nella situazione in cui siamo, anche lo spazio del radicalismo sociale oggi ha il problema di non essere espulso dalla dimensione politica, di affermare la propria soggettività e di unificare la capacità di produrre egemonia culturale e trasformazione. Per reimmergersi nella società, ricostruire un'utilità sociale della sinistra non basta organizzare mense per gli immigrati o i disoccupati, che altri fra l'altro fanno già benissimo, serve forse ricostruire con chi le fa e con chi ci va un progetto comune. Ha ragione Tronti: il sociale non va descritto, va ricostruito da una capacità di inchiesta nei territori, dei soggetti sociali "che si costituisce come nuova progettualità politica". Per quanto in crisi, da riattualizzare e da rimettere in discussione, nelle sue forme, nella sua organizzazione e nelle sue pratiche, credo ancora nel partito gramsciano e credo nella necessità di ricostruire una sinistra allo stesso tempo politica e sociale e culturale che abbia l'ambizione di essere oggi anche un "intellettuale collettivo", ovvero di ricostruire una coscienza civile, un senso comune opposto a quello dell'egemonia culturale delle destre. Ecco dunque la necessità di ricongiungere, riannodare e stringere il nodo fra campo sociale e forza politica dentro un nuovo spazio pubblico. Un compito ambizioso e necessario, a cui corrisponde a mio parere il processo costituente per la ricostruzione di una soggettività di massa della sinistra.

martedì 17 giugno 2008

contributo alla discussione di Amilcare Nozzolillo - capogruppo PRC consiglio provinciale di Caserta

In margine alla presentazione della mozione Vendola a Caserta

“Voglio ritrovare gli uomini e le donne, gli antichi racconti e le nuove narrazioni, il perché di un dolore sociale sempre più diffuso e di una solitudine individuale che condanna all’inerzia tutti e tutte”. (Nichi Vendola)

E’ davvero credibile e fondata l’interpretazione critica che definisce l’intervento di Nichi Vendola al Forum di Caserta sconclusionato? E che la strada del cambiamento, la necessità di reinventare una sinistra di popolo, orienta unicamente verso l’Olanda, se non addirittura verso la Padania, declinando storie e uomini e lotte e appartenenze, nella dimensione salvifica del cosiddetto “partito sociale”? Penso proprio di no!

Dobbiamo chiederci come è cambiato questo Paese, cosa ci chiede. C'è una mutazione antropologica che s’intravede nei comportamenti quotidiani, che indica un buco nero di umanità e di valori. Ci sono devastanti forme di precarietà che stanno destrutturando l’idea stessa del lavoro come diritto e come civiltà. Io non rinuncio a un cammino desiderante la cui unica meta è lo smascheramento di un capitalismo che quanto più ci si presenta come neutrale e naturale tanto più si fa pelle viva delle nostre anime e dei nostri corpi. Un capitalismo che non è solo la forma assunta dai rapporti di produzione ma linguaggio, cultura, senso comune. Un capitalismo che, meglio di noi, legge, interpreta e asseconda la realtà ridisegnandone a suo vantaggio geopolitica e alfabeto e che, a sua volta, la realtà produce.

Se si fanno proprie le analisi di Vendola, ma poi, in contrapposizione, s’intende coniugare la collocazione istituzionale con le soggettività sociali per mezzo di un codice moralistico-calvinista o celtico, si sta giocando una partita (congressuale) che non c'entra niente con la complessità del dolore e della sconfitta che obbliga all’incessante e faticoso “andare” e “tornare” ..

Lo dico con rispetto, perché in qualsiasi forma si affrontano i temi che ci interrogano in profondità, la strada del cambiamento è l’unica percorribile e ciascuno di noi può e deve apportare il proprio contributo. Tuttavia non leggo nelle opinioni espresse contro Vendola, l’idea di Partito, ma quella, tra l’altro molto nobile, di benemerite società di mutuo soccorso.

La funzione preminente dei partiti è la trasmissione e l’organizzazione delle domande politiche, la traduzione delle proteste in proposte. Nichi Vendola nel suo racconto si è soffermato soprattutto sulla funzione pedagogica, la funzione gramsciana.

Non penso che sia assolutamente necessario dare un nome, né tantomeno chiedere le conclusioni, alla narrazione di Nichi. Il soggetto della narrazione è sempre un soggetto collettivo che deve ispirare la definizione delle finalità e delle priorità della politeia (la politica.)

La narrazione è ideologia e qualcosa di più: è il vissuto di emozioni, gioie, sofferenze, realizzazioni. La narrazione comprende necessariamente il passato, il presente, il futuro.

Nichi Vendola ci ha lanciato una sfida sul terreno dell'azione e dell’innovazione; ci ha proposto i principi su cui devono fondarsi il discorso e l'azione di un’alternativa di società, cimentandosi in una narrazione nuova del mondo diverso che vogliamo costruire..

Il principio della vita, per il diritto di tutti e di ciascuno a una vita degna; il principio del vivere insieme contro la frantumazione di ogni dimensione comunitaria e di ogni cultura della socialità; il principio dei beni comuni contro la logica mercantile che disprezza i sogni e i bisogni delle persone; il principio della democrazia perché quando una democrazia, una società, vive un momento di inquietudine come quella che attraversa l'Italia intera, tornare a riflettere criticamente sulle radici della nostra storia democratica è un’occasione importante per provare a costruire una diagnosi precisa dei mali che incupiscono i giorni nostri; il principio della responsabilità che, facendo tesoro degli sbagli e delle tragedie del passato, ha l’ambizione di riaffermare la propria ragione sociale e ideale, non percorrendo un cammino a ritroso verso i luoghi della nostalgia, bensì proiettandosi al futuro; il principio dell’utopia, la voglia di sognare per rimotivare speranze e domande politiche.


La sinistra che verrà

La sinistra che verrà

di Nichi Vendola

C'è chi, come Rossana Rossanda, ha definito la nostra mozione come "la più aperta e problematica" tra quelle che verranno presentate e discusse al congresso.
C'è chi, viceversa, non ha mancato di accusarci di moderatismo, di tradimento della tradizione, di occultamento strumentale di simboli e bandiere, di efferato omicidio simbolico perpetrato contro i nostri padri e le nostre madri.
Liquidare queste posizioni come due "semplici" punti di vista contrapposti sarebbe un errore. Così come sarebbe un errore confondere quella contrapposizione con ciò di cui, in realtà, è sintomo storico e manifesto: la contraddizione - tutta interna alla storia della sinistra e causa prima di molte sconfitte - tra coloro che al comunismo guardano come a una domanda che sempre va riformulata o come ad un cammino che mai ammette soste troppe prolungate e coloro che alle domande preferiscono le risposte. E all'andare e al tornare, incessante e faticoso, lo "stare".
Io non rinuncio a un cammino desiderante la cui unica meta è lo smascheramento di un capitalismo che quanto più ci si presenta come neutrale e naturale tanto più si fa pelle viva delle nostre anime e dei nostri corpi. Un capitalismo che non è solo la forma assunta dai rapporti di produzione ma linguaggio, cultura, senso comune. Un capitalismo che, meglio di noi, legge, interpreta e asseconda la realtà ridisegnandone a suo vantaggio geopolitica e alfabeto e che, a sua volta, la realtà produce.
Così il capitalismo occulta la sua stessa storicità e, con essa, quella di una realtà che – pur in continuo movimento - si fa materia fissa e immobile.
In quella realtà, al contrario, io voglio ritrovare la vita.
Voglio ritrovare gli uomini e le donne, gli antichi racconti e le nuove narrazioni, il perché di un dolore sociale sempre più diffuso e di una solitudine individuale che condanna all'inerzia tutti e tutte. O che, peggio, attacca il nemico che non c'è, incendia i campi rom, disprezza la differenza mentre appicca i roghi dell'indifferenza.
Combattere una cultura sempre più chiusa e identitaria vuol dire, oggi, combattere l'essenza stessa del capitalismo del XXI secolo, il cibo avariato di cui si nutre, la pelle aggrinzita di cui si riveste. Combattere quella cultura vuol dire stanare la realtà, farla parlare e insieme darle nuove parole perché "cose" nuove come la paura, l'insicurezza, la povertà, la precarietà hanno bisogno di nuove "parole".
E per stanare la realtà è necessario uscire dalle trincee e abbandonare tutte le postazioni che ci inchiodano sulla difensiva. Se la realtà si muove, come si muove, noi pure dobbiamo farlo.
Rispondere a quella cultura identitaria che fa la fortuna del capitalismo contemporaneo con altra cultura identitaria, con la chiusura nei recinti rassicuranti ma letali delle antiche certezze, sarebbe un suicidio.
Contrapporre all'io egoista del capitale un "noi" che pure chiude all'esterno equivarrebbe ad un'ennesima resa.
Oggi l'idea e il progetto di una Costituente della sinistra, lungi dall'essere l'incontro tra alcuni sparuti ceti politici, vogliono dire questo: l'apertura alle domande che la società, soprattutto le sue fasce più deboli e dolenti, ci pone; la ricerca da condursi insieme, passo dopo passo, con tutte e tutti quelli che non hanno accettato, non accettano e non accetteranno mai l'ineluttabilità di un dominio capitalista forse mai prima d'ora così feroce, arrogante, totalizzante ed ebbro delle sue stesse vittorie; l'avvio di un processo che non sarà breve né facile e il cui traguardo non è un nuovo partito ma la nascita di una nuova idea e di una nuova pratica di partito. Una pratica quanto più partecipata e democratica possibile, una pratica adeguata alle esigenze di un presente che ancora non abbiamo davvero imparato ad analizzare e a modificare.
E allora ben vengano anche simboli e bandiere, non meri feticci da esibire ma rammemorazioni che al passato conferiscano l'urgenza e l'unicità del presente. Di questo presente, del nostro presente. Questo significa essere una minoranza. Questo significa non essere minoritari.
Nichi Vendola

un contributo del segretario Generale Fiom-Cgil Toscana

di Mauro Faticanti*

Ci sono momenti in cui essere partecipe delinea in concreto il confine anche personale fra teoria e prassi. Questo vale ancor di più nei momenti di difficoltà, quando subisci sconfitte drammatiche, quanto le ragione stesse della tua azione e del tuo impegno, vengono così duramente messe in discussione. Oggi la sinistra è in questa situazione, una sconfitta storica frutto di un risultato elettorale che ammette poche repliche ma che nel contempo richiede un'analisi attenta sulle ragioni, sul perché. Dunque ragionare sulle cause della sconfitta impone a tutti di misurarsi sull'impatto che processi di trasformazione capitalista hanno sul contesto sociale, sulla costruzione di diversi elementi valoriali che innescano nella società globale, da noi con i campi nomadi in fiamme come in Sudafrica con l'assalto alla comunità somala, pulsioni xenofobe e razziste. Certo ragionare su questo livello di analisi non necessariamente comporta arrivare alle stesse conclusioni anzi, si può riconoscere questi temi e arrivare a conclusioni opposte, ma certo di questa discussione non possiamo farne a meno. Siamo dunque di fronte ad una domanda che provo a sintetizzare in questo modo: la globalizzazione capitalista, con i suoi processi politici e sociali, determina oggi una cesura definitiva con la storia del movimento operaio, ne determina il rischio di una sconfitta definitiva e di conseguenza la fine stessa della sua ragione di esistere? O siamo invece di fronte ad un pesante arretramento dei rapporti di forza, anche drammatico, determinato certo dai processi di trasformazione capitalista, ma anche dalla nostra incapacità di dare risposte al succedersi dei mutamenti, una incapacità tutta nostra di aggiornamento di analisi, di contesto e dunque di pratica. Come rispondiamo a questo quesito determina nei fatti le scelte da assumere e praticare, sia nella sinistra politica sia nel sindacato, perché capisco bene che se si pensa di essere a rischio di una sconfitta definitiva della storia e della pratica della tradizione comunista e del movimento operaio, si sceglie di difendere quell'identità "costi quel che costi", si sceglie una via, per l'appunto identitaria, che prova a far sopravvivere quell'idea. Questo oggettivamente determina, aldilà persino delle esplicite volontà di chi la promuove, una logica di per se minoritaria, una via francese di uscita alla crisi della sinistra. Se invece si risponde riconoscendo che alla forza dei processi si è accompagnato un'incapacità nostra di leggerli, di analizzarli e, soprattutto, di produrre risposte all'altezza delle sfide e della forza che questi mettono in campo, se si sceglie questo, l'operazione da fare è assolutamente opposta all'idea identitaria. Personalmente sono assolutamente convinto di questa seconda ipotesi e questo richiede che, a fronte dello sfondamento nella società e anche in vasti strati popolari, di orientamenti caratterizzati dall'egemonia culturale che sono stati propedeutici ai processi economici e conseguentemente, al risultato elettorale, perché si vince sempre prima culturalmente e poi elettoralmente, si determini la possibilità della ricostruzione di un pensiero critico capace di competere proprio a partire dal punto di vista dell'egemonia culturale. Ricostruire le ragioni della sinistra, di una sua capacità politicamente "attrattiva" verso strati più deboli della società, culturalmente all'altezza del disagio che tanti cittadini provano al cospetto della politica, dunque risvegliare passioni, mettere in campo intelligenze, utilità della partecipazione e dell'idee, insomma in poche parole aprirsi invece che chiudersi. Per fare questo abbiamo bisogno esplicitamente di un processo costituente. A me pare che questo sia il tema del congresso del Partito della rifondazione Comunista, e su questo si misurano risposte e opzioni diverse. Ma questa discussione determinerà molto sulle prospettive della rinascita di una sinistra adeguata alle trasformazioni in atto e in quanto tale capace di opporvisi, e che proprio per far questo non sceglie ne scorciatoie ne tantomeno rassicuranti certezze perdute, ma inizi un processo lungo e complicato ma ineluttabile per chi non vuole subire passivamente la subalternità della politica ai processi liberisti oggi dominanti. Questo è il tema e proprio per questo motivo scelgo di essere liberamente e consapevolmente ad esso partecipe iscrivendomi al PRC, partecipando al Congresso e appoggiando con convinzione la Mozione del compagno Vendola.

*Segretario Generale Fiom-Cgil Toscana

Contributo di di Fausto Bertinotti

di Fausto Bertinotti


Questo articolo sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista “Alternative per il socialismo”

Premessa
Questa volta indagare le ragioni della sconfitta è un’operazione politica di prima grandezza; un esercizio difficile e doloroso, una necessità inderogabile, il cui esito, unito all’ampiezza e alla qualità della sua condivisione, sarà assai influente sulle stesse sorti dell’impresa per la ricostruzione della sinistra in Italia. Sono la stessa natura e la profondità della disfatta a rendere la ricerca delle sue cause così impegnativa. Si tratta dunque di un lavoro da cominciare senza pensare di poter essere autosufficienti, e dunque cercando di attivare tutte le relazioni e le collaborazioni possibili a sinistra e nel campo delle diverse discipline, e da proseguire, senza pensare di poterlo chiudere e archiviare rapidamente. Decisiva, come sempre, sarà la capacità di tenere la ricerca in un rapporto concreto, dialogico con le esperienze di lotta e di movimento nel nuovo e difficile campo d’azione che si è venuto configurando dopo la sconfitta e col nuovo assetto istituzionale, politico e sociale del Paese. Aiuta la possibilità di capire le ragioni della sconfitta l’analisi dei vincitori, l’analisi della destra italiana. E’ già stata chiamata la Nuova destra. Non credo impropriamente; essa ha mostrato una forza propria considerevole, una presa dura e originale con la modernizzazione che investe la società italiana. Nessuno più dei fattori identitari delle diverse destre italiane che avevano caratterizzato la loro storia ormai la definisce più. Non l’eredità del fascismo, non l’assolutizzazione dello stato nazione e neppure il liberismo. L’ingresso della destra nella modernizzazione, candidandosi ad essere la forza più vocata ad accompagnarla, l’ha deideologizzata, consentendole di recuperare poi scampoli e tracce delle diverse tradizioni della destra e di ricomporle in una politica definita proprio sulle risposte da dare alla crisi sociale e politica e istituzionale provocata dalla stessa modernizzazione. Non fascista, ma in grado di usare elementi di quella cultura e dei suoi depositi nel coltivare l’avversione dura e prepotente ad ogni diversità specie quando l’insicurezza si tramuta in paura e la figura del capro espiatorio riemerge dalle tenebre come lenimento proprio delle paure. Non l’assolutizzazione della patria-nazione, ma un pragmatico e cinico uso del suolo nativo, fino a comprendere persino la piccola patria delle leghe, per esorcizzare lo storico problema delle migrazioni di massa nel mondo globalizzato delle diseguaglianze mortali. Neppure pienamente liberista così da smarcarsi rispetto al neoliberismo impotente dei suoi ideologi di centro-destra come di centro-sinistra - il partito di Maastricht - e contemporaneamente aderirvi pienamente sul tema cruciale del rapporto lavoro-impresa-mercato fino a configurarsi come il partito dell’impresa (e della Confindustria). Un potente arlecchino che rispecchia la scomposizione della società, il frantumarsi anche delle soggettività forti, un arlecchino che miscela i suoi colori e le sue cento tessere con gli istinti che animano la società civile confezionando un’idea generale di restaurazione che poi rinvia alla società trasformandola in politica, senza che però ne abbia più l’apparenza: una sottile proposta di complicità. La Nuova destra cambia il registro della politica e la destra smette di essere minoritaria, ruolo a cui l’aveva consegnata la rottura operata dalla Resistenza e il lungo dopoguerra italiano. Neppure i precedenti governi di Berlusconi avevano risolto alla destra questo suo problema storico. Ma ora l’Italia è davvero entrata in una nuova era politica. Bisognerà tornare su un tema propriamente gobettiano, quale quello dell’autobiografia di una nazione, per riflettere approfonditamente sulle onde lunghe che solcano la storia del nostro paese, sui costi e sulle impronte corrosive lasciate dalle mancate rivoluzioni e dalle maturazioni impedite in tornanti decisivi della sua storia, per capire meglio cosa sia accaduto nello scomporsi e nel formarsi delle coscienze e dei nuovi linguaggi in questa modernizzazione senza modernità che ci ha investito. Capire a fondo cosa sta prendendo corpo sulla disfatta della sinistra, sulla cocente sconfitta del PD e sulla vittoria della Nuova destra, oltreché essere una bussola per la costruzione dell’opposizione nel paese, è anche assai importante per risalire alla causa di fondo della sconfitta e per affrontarla. Ci sono parole che vanno maneggiate con cura, in politica, perché possono produrre, se si affermassero, quando sbagliate, guai molto seri. Tanto più sono pesanti, tanto più vanno vagliate con particolare attenzione. Una di queste è la parola regime. Proprio la considerazione della centralità dei movimenti nelle politiche della sinistra, proprio l’esigenza primaria di non sottovalutarne mai la realtà concreta quando si manifestano, né le loro possibilità di affermazione e di crescita, proprio l’esigenza di ricercarne tutti i varchi che si possano aprire nel sistema politico, economico e sociale induce ad una giusta diffidenza nei confronti di questa definizione della realtà che indica una situazione se non impossibile (quando mai ce n’è una?) certo molto chiusa. Perciò non ci convinse il ricorso al suo uso di fronte al precedente governo Berlusconi, quando, pur in presenza di elementi assai preoccupanti, grandi contraddizioni animavano, più in generale, il quadro del paese. Ben diversa è la condizione attuale. Credo si debba ora azzardare la tesi, in prima approssimazione e sottoponendola a verifica critica, che quello che sta prendendo corpo è un nuovo regime, il regime leggero. Prendendoci una qualche licenza, si può dire che lo connota l’a-privativa; privativa della stessa politica, se intesa in senso forte come, cioè, idea di società. Nessun terreno è escluso dalla privazione, nell’organizzazione della democrazia, della rappresentanza, del governo. Comincia dalla Repubblica. L’avvio l’ha fornito il discorso di Fini di apertura della legislatura e, più ancora, la fortissima area di consenso con cui è stato salutato quello che si proponeva come il discorso del primo Presidente della Camera della nuova Repubblica, seconda o terza che sia. Con l’arco costituzionale veniva fatto cadere il fondamento della Costituzione repubblicana, la discriminante antifascista, nella sua forza generatrice, almeno come potenzialità aperta, di una nuova nazione, di un altro paese. L’uscio tornava così sui vecchi cardini, ma proprio nel senso contrario a quello allora auspicato da Salvemini. Ci dovrebbe toccare, d’ora in poi, una Repubblica a-fascista e, dunque, a-antifascista , una Repubblica senza radici e senza storia. Al suo interno, il Parlamento non è più il luogo dello scontro tra governo e opposizione, del confronto rispettoso delle persone ma netto nell’opposizione delle politiche, affinché siano chiare le scelte e leggibili gli interessi che vengono rappresentati. Il Parlamento si presenta ora come luogo non già della rappresentanza, ma della governabilità, e tutto intero si configura come una sorta di governo allargato; solo resta una diversa nuance, ma all’interno della medesima dimensione, quello tra governo reale e governo ombra. Un Parlamento a-politico. E’ come se sotto gli scranni del Parlamento ci fosse una gigantesca calamita che tira verso il governo, la calamita del mercato. La stessa forza che attrae dentro queste istituzioni, l’altra grande metà della politica, le relazioni sociali. Anche le relazioni sindacali che si stanno ridefinendo (perché con il governo?) vanno in direzione dell’allargamento del governo coinvolgendovi le parti sociali in una concertazione che da eccezione è diventata regola e ora si accinge a farsi sistema, vanificando ogni autonomia del sindacato, sospinto a farsi istituzione tra le istituzioni. Così la a privativa arriva direttamente al cuore della democrazia, al conflitto. Se negarlo è impossibile, quel che invece è possibile è sospingerlo in una dimensione patologica perché priva della legittimazione sociale e politica garantita solo dal riconoscimento del suo carattere progressivo e di attore della giustizia sociale. Relazioni sindacali e sociali a-conflittuali guidate da parametri esterni alla condizione di lavoro ne costituiscono il suggello. Si consuma così in un “regime leggero” la crisi profonda della rappresentanza democratica che ci costringe a percorrere un impegnativo cammino a ritroso per indagarne i prodromi, le anticipazioni, i processi di passivizzazione, di spoliticizzazione, le distrazioni colpevoli, gli errori della sinistra e i nostri in essa. E’ infatti nella lunga e strisciante crisi della democrazia, nella progressiva sostituzione della rappresentanza col governo che si è consumata la crisi della sinistra. Così come, al contrario, nel caso italiano, cioè nella straordinaria stagione del cambiamento, l’allargamento della democrazia e la sua apertura alla democrazia conflittuale e partecipata aveva accompagnato l’ascesa della sinistra, così nella crisi della democrazia si consuma la crisi della sinistra e il suo crollo elettorale. E se quella è stata la stagione delle passerelle, dei ponti, delle cerniere che consentivano gli attraversamenti, le contaminazioni arricchenti, l’ingresso dei prima esclusi, questa che si vuol aprire oggi è la stagione del fortino: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Dentro il sistema, dentro il governo allargato; fuori dal governo allargato, fuori dalla rappresentanza. La questione della sinistra nella politica, della sua disfatta come della sua possibile ricostruzione, si fa, forse, più chiara anche se non di più facile soluzione. In ogni caso è evidente che si tratta di un destino che condivide, di fatto, con le forze sociali e culturali che nella società si trovano ad affrontare il tema del loro riconoscimento, dell’inclusione. Per loro, in primo luogo, vale oggi il dentro o fuori. Bisognerà ricordare che la diffusione anche delle più orribili tendenze xenofobe e di discriminazione si alimentano nel corpo della società quando si rivelano, cinicamente funzionali a difendere assetti sociali, altrimenti indifendibili. Dall’impedire che tutto ciò si consolidi in regime dipende ormai il futuro della sinistra. L’avvento di quello ha segnato la cancellazione della sinistra. Il rischio ci era presente. Solo per testimoniarlo ci permettiamo di ricordare ciò che Alternative per il socialismo scrisse sul suo secondo numero, il luglio di un anno fa:
“La sinistra in Europa si trova oggi di fronte alla sfida forse più difficile della sua storia: quella dell’esistenza politica. Non è solo, come è successo tante altre volte, il rischio della sconfitta, dello scompaginamento, di un duro ma temporaneo ridimensionarsi della sua forza: quel che si affaccia è l’orizzonte di un vero e proprio declino. E questa volta l’urgenza della risposta è davvero grande: non ci sono dati nè tempi lunghi nè solide certezze sugli strumenti con i quali attrezzarsi. E’ un po’ come quando tocca insieme correre e cercare la strada, ed è anche possibile che non si riesca a trovarla. Ma se finisse così l’esito sarebbe drammatico: l’eredità del movimento operaio del ‘900 ne sarebbe, semplicemente, cancellata”. Rossana Rossanda lucidamente parlò all’inizio della campagna elettorale della sfida, per la Sinistra l’Arcobaleno, consistente nel portare a casa la pelle. La crisi era evidente, il rischio di scomparsa era, drammaticamente, nel novero delle cose prevedibili. Non ne avevamo però previsti i tempi e i modi, non avevamo previsto (non lo aveva previsto nessuno) la violenta accelerazione della crisi, il suo esito elettorale disastroso. La sinistra è stata messa dal voto fuori dal Parlamento; il PD è stato sconfitto. Per le forze della Sinistra l’Arcobaleno, la débâcle è senza appello. Ma è nel paese che si è aperto il vuoto più inquietante, il vuoto della sinistra politica. Il governo Prodi: il fallimento di un’esperienza
L’esperienza del governo Prodi e, in particolare, il nostro rapporto, quello delle diverse forze della sinistra radicale, con quel governo è, io credo, ciò che ha fatto traboccare il vaso della crisi della sinistra. Esso ha pesato persino più di quanto si fosse pure diffusamente pensato a sinistra. Nell’esperienza si è prodotto un salto all’indietro, si è consumata una scissione, per lo più silenziosa, si sono moltiplicate le rotture, i punti di rottura tra partiti e movimenti, nei partiti, nei movimenti, nelle e tra le opposizioni della sinistra sociale e politica; in storie collettive di comunanza di intenti e di sentimenti si sono introdotte divisioni e separazioni. Nel rapporto tra le politiche delle forze di sinistra e, da un lato, il suo insediamento sociale e, dall’altro, le molteplici soggettività critiche che ad esse guardavano si è aperto uno iato. La latente crisi del rapporto tra le istituzioni e il paese, non fronteggiata sul terreno della sua riforma sociale, è esplosa con la denuncia della casta, che, mescolando una critica condivisibile ad una degenerazione istituzionale lunga di decenni con una nascente coltivazione dell’antipolitica, ci ha investito col doppio effetto della caduta della speranza di cambiamento riposta nel governo Prodi e del discredito caduto sul sistema politico nel suo insieme. La politica è apparsa allora ridotta come a un indistinto ceto politico ad una parte grande del popolo anche tradizionalmente di sinistra quando una crisi di società lo ha investito senza che fossimo stati capaci di erigere contro di essa efficaci dighe difensive. I bassi salari, la precarietà, l’incertezza e l’insicurezza del vivere quotidiano sono così rovinati addosso agli insediamenti sociali di riferimento della sinistra ormai deprivati sia di protezioni culturali che sociali. Il fallimento dell’esperienza del governo Prodi ha coinvolto la sinistra radicale che non ha retto la prova, per altro difficilissima, del governo. A questo risultato ha certo concorso la sua disarticolazione interna, la sua divisione in partiti con culture di governo e di lotta assai diverse tra loro. Ma quel che a me sembra ancor più significativo e, per alcuni versi, ciò che ci rinvia alla questione più impegnativa e difficile è la falsificazione intervenuta, con la prova concreta del governo, dell’ipotesi più ambiziosa che era stata messa in campo a sinistra, l’ipotesi cioè fondata su due condizioni-obiettivo che erano la permeabilità del governo da parte dei movimenti e l’autonomia del partito, il PRC, dal governo di cui entrava a far parte. La pressoché generale irrisione della formula ‘partito di lotta e di governo’, da sinistra come da destra, di una formula che seppur rozzamente dà conto di un problema reale, sottolinea la straordinaria difficoltà dell’impresa, ma non assolve la responsabilità politica di chi, come noi, ci ha provato. Il governo ha progressivamente rivelato una sostanziale impermeabilità ai movimenti. Il condizionamento, certo in qualche misura prevedibile, dei poteri forti si è rivelato una vera camicia di forza adottata dal governo stesso. Sull’altro versante, quello dei movimenti, il vento è venuto cambiando di direzione. Il rapporto partito-movimenti veniva già da una stagione non facile, il passaggio di governo accentuava le difficoltà e acutizzava divisioni politiche presenti nei movimenti. Ma la stagione ha messo in luce anche una fragilità dei movimenti, la difficoltà a porsi sul terreno di un movimento, plurale sì ma unitario. Il conflitto sociale non è stato messo in relazione con un progetto di movimento, irretito dal sindacato sul terreno istituzionale ma anche senza cerniere, nessi, saldature con gli altri movimenti. La grande manifestazione contro la precarietà è rimasta un episodio. Le lotte di comunità territoriali, malgrado la forza di massa della critica a scelte militari o di mega-opere dai duri impatti ambientali, non sono risultate interne ad un processo di costruzione di un movimento articolato su larga scala, né hanno potuto far rivivere lo spirito vincente di Scanzano. I diversi spezzoni di movimento, da quelli classici come i metalmeccanici nella lotta per il rinnovo contrattuale fino alle azioni sui diritti civili e delle persone, anche quelle più interessanti, sono restati soli senza poter accumulare unitarietà e crescita di una soggettività politico-culturale condivisa (l’orizzonte mancato di un altro mondo possibile). Il limite interno ai movimenti interroga sempre i limiti delle forze politiche organizzate a sinistra, parlo naturalmente di quelle che scelgono il rapporto forte coi movimenti. Credo che abbia pesato qui anche il limite della rifondazione del PRC. Questo partito, in particolare da Genova in poi, aveva scelto, pur nel rispetto pieno delle autonomie e delle diversità di ruolo, un rapporto di scambio imprescindibile col movimento. Molto osando, aveva operato profonde rotture e innovazioni nella cultura politica, fino a guadagnare la scelta della nonviolenza. La più grande promessa di apertura ai movimenti e all’esplorazione di nuovi linguaggi della politica e della partecipazione. Il passaggio alla pratica concreta, all’approfondimento nella prassi, già in sé difficilissima, ha incontrato il limite più serio che si è manifestato nella stessa rifondazione, quello che più ha pesato anche nella difficoltà a contribuire a contrastare le flessioni, le ombre dei movimenti. Quel limite pesante è stata la mancata innovazione del modello di organizzazione del partito, malgrado la sollecitazione forte che è venuta dall’esperienza delle donne. E’ mancata la sperimentazione del passaggio da una struttura verticale, piramidale, ad una struttura orizzontale, a rete, capace di esaltare il saper fare, il fare società, i processi di socializzazione, la partecipazione, il valore dell’esperienza e della persona. Tutto ciò ha probabilmente contribuito a pregiudicare la possibilità di una reale autonomia dal governo. C’è stato su questo punto, quello dell’autonomia, indubbiamente, un prevalere del dover essere, una sopravvalutazione di sé come comunità politica originale e capace di farcela, perché in grado di poggiarsi sul lungo percorso dell’autonomia del PRC dal 1998 al congresso di Venezia del 2005 (la data è ricordata per non confonderlo con l’assai più giustamente famoso congresso del PSI degli anni ‘50). L’esperienza della partecipazione al governo Prodi è venuta così ad essere costretta tra Scilla e Cariddi, tra la condanna ad una sostanziale ininfluenza sulle grandi scelte della politica interna del governo o la rottura con esso e la fine della legislatura, prima che fosse possibile verificare fino in fondo la possibilità estrema di uscire dalla politica dei due tempi che Prodi e i suoi avevano adottato. Caduto da destra il governo, il bilancio è diventato per la sinistra impresentabile. Gli interrogativi che si aprono sono indubbiamente di grande peso, anche per il suo futuro. C’è oggi in questa Europa la possibilità di un governo in cui la sinistra abbia un’influenza seria e la possibilità di trovare la giustificazione delle proprie collocazioni, nella realizzazione di un compromesso riformatore aperto ai movimenti e dunque aperto ad una prospettiva della costruzione di un diverso modello di organizzazione dell’economia e della società? Oppure c’è oggi, ai fini di questa ipotesi di lavoro, un’insuperabile immaturità della situazione e/o una inesistenza delle condizioni soggettive, a partire dallo stato della sinistra e dei rapporti sociali, per provarci? Per cercare di rispondere alla domanda è forse ancora necessario riflettere sui passaggi che hanno portato all’esperienza dell’Unione e alla nascita del governo Prodi e sui passaggi che ne hanno caratterizzato il cammino, a partire dalla sua prima finanziaria per arrivare al momento cruciale, io credo decisivo, del giugno-luglio 2007, delle scelte sulle pensioni e la precarietà. Anche per il coinvolgimento diretto di chi scrive nella responsabilità politica del passaggio, vorrei qui solo far riferimento al confronto sul programma elettorale e di governo dell’Unione. Ci si può avvalere dell’idea, giusta, che la storia si fa con i se, e poco importa che qui si parli della cronaca. Si è spesso parlato dell’estrema vastità e del carattere dettagliato del programma, le ultranote 200 e più pagine. Tutto si può dire oggi tranne che quella fosse una mediazione al ribasso. Anzi oggi si vede bene come la sua articolazione costituisse una sorta di manuale per l’azione di governo. Come a dire, adesso basta il fare, basta l’azione di governo per applicare il programma, perché l’accordo politico c’è. In realtà l’idea, neanche tanto celata, di supplire al deficit strategico della coalizione (la visione di riforma della società) con l’elencazione delle (abbastanza buone) cose da fare non ha funzionato, forse proprio perché non poteva. Il confronto sulle grandi idee forza, sulle opzioni strategiche di fondo non può, mi pare questa una lezione dell’esperienza, essere sostituita da alcunché. La mancanza di una rotta condivisa, di una visione comune si è dimostrata un handicap insormontabile; nel vuoto si produce un veleno che inquina i pozzi. Ma le attese sacrosante di cambiamento si erano forse già arenate, col risultato delle elezioni politiche del 2006, sull’esiguità dei margini di maggioranza, pressoché inesistente in uno dei due rami del parlamento. Visto alla luce dell’esito (la conclusione di una vicenda rende tutti più intelligenti sul suo corso), sarebbe stata necessaria, allora, una discussione di massa, un coinvolgimento partecipe sul che fare, tanto più se si ricorda la natura delle estese attese di cambiamento (non ci basta cacciare Berlusconi, bisogna realizzare una diversa politica) che avevano guadagnato al centro-sinistra i consensi che lo avevano portato alla vittoria (risicata). Si trattava dunque di una delega condizionata: io ti voto, ma ti aspetto al vaglio della prova e la mia è una prova estrema, l’ultima chance. La prova è fallita, il dramma si è consumato. E si torna alle domande di partenza. L’esperienza di governo oggi nei diversi paesi Europei è dunque fuori portata per la sinistra, per il ciclo in cui siamo collocati? La domanda trascende, per me persino ovviamente, il qui e ora, cioè l’esigenza per la sinistra di ricominciare l’opera di ricostruzione di sè dall’opposizione e non solo per stato di necessità. La domanda oltrepassa la congiuntura. Pressoché tutti i governi nel cuore dell’Europa sembrano condannati a farlo senza un durevole consenso di massa, si veda la rapida parabola del fulmine Sarkozy, ma, d’altra parte, senza la possibilità di vederli impegnati in un’uscita dal predominio del mercato e del capitale nelle forme imposte dalla gigantesca ristrutturazione capitalista in corso. Può essere, dunque, che si debba verificare in Europa, in questo ciclo, una sorta di immaturità della questione del governo per la sinistra radicale. Ma se così fosse (io credo invece che il quesito resti aperto) sarebbe un bel problema, non una liberazione. Ha ragione Franco Cassano quando sostiene che “è proprio la dimensione profonda dei problemi che mi porta a dire che la dimensione del governo per la sinistra non è un cedimento, ma al contrario una conquista. Io temo che l’allergia radicale al governo nasca anche dalla povertà di idee” e che “se non c’è un disegno forte, ad esempio quello di governare in modo alternativo la composizione di classe, se non c’è un’ambizione egemonica, si rimane incastrati nella tattica e si lascia agli altri uno spazio enorme”. Non vedo, sul terreno di medio periodo, una risposta facile al problema. La crisi della rappresentanza ha concentrato nel governo la contesa politica. Questa trappola mortale va spezzata. Ma come? Forse prendendola, intanto, da due lati. Da un lato, mettendo in discussione dal basso, dalla società, dal conflitto agito, con consapevolezza politica e partecipante, la tendenza denunciata da Agamben e riassunta nella formula della ‘governamentalità’, cioè ricostruendo pazientemente partecipazione, democrazia diretta, rappresentanza e, soprattutto, legame sociale. Dall’altro lato, lavorando sull’opposizione dell’ipotesi, oggi lontana, del governo riformatore (e perciò parte delle contese tra destra e sinistra, tra uguaglianza e diseguaglianza, tra libertà e alienazione) al governo allargato (condizione a cui assistiamo ora, come nuova forma di rappresentazione del recinto degli inclusi). La risposta alle domande non verrà a breve; essa passerà, se sapremo trovarla, per nuove esperienze sociali e nuova ricerca politica. Quel che è certo è che questa esperienza di governo, quella del governo Prodi, ha fatto tracimare il vaso e la crisi ci ha investito frontalmente. Ora il (nostro) re è nudo. La sinistra, l’Arcobaleno: la disfatta elettorale
La campagna elettorale non solo non ha contribuito a ridurre la gravità dello scacco, ma lo ha persino aggravato. Quanto siano state negative per la sinistra le condizioni ambientali è evidente ad ognuno ed è persino troppo facile indicare il peso distruttivo operato dal voto utile e l’effetto destrutturante della politica del PD sulla sinistra sia nel senso di cancellare, con la sua collocazione programmatica e con il suo profilo politico, ogni spazio di confronto a sinistra (inducendo lì un senso di solitudine e di inefficacia) che di pretendere di attrarre su di sè, col collante pigliatutto di essere l’unica possibilità di vincere su Berlusconi, ogni avversione al centro-destra. Ma la riflessione autocritica (che brutta parola!) sulla vicenda della Sinistra l’Arcobaleno non può essere nascosta dietro queste considerazioni. Come già per la costruzione dell’esperienza del governo Prodi così, seppure per ragioni differenti, anche la nascita, l’invenzione, della Sinistra l’Arcobaleno è stata dettata da uno stato di necessità, da un frangente eccezionale, le elezioni con annessa soglia di sbarramento. Le ragioni della costruzione di una soggettività “unitaria e plurale” a sinistra preesistevano certo e si erano anche manifestate, a volte riuscendo a far credere ai molti che la invocavano che la via era finalmente tracciata e intrapresa. Più di un momento favorevole, di un particolare stato di grazia per il processo unitario, è andato perduto. Né vale ora indagarne le ragioni, quel che conta è la delusione, la dispersione di energie che ciò ha determinato. Il precipitare delle elezioni ha ricreato lo stato di necessità (così evidente che nessuno a sinistra ha proposto di andare alle elezioni con un diverso assetto). Quel che in più, rispetto alla povertà dello stato di necessità, viene allora immesso nella difficilissima impresa elettorale è la visione di ciò che non si era riusciti a costruire prima attraverso un processo partecipato e di società, la nascita di una nuova sinistra che sarebbe dovuta andare oltre i partiti che avevano costruito la Sinistra l’Arcobaleno, aggregando tutte le forze, le energie, le soggettività già presenti nella società e disponibili a cimentarsi con la nuova impresa politica e attraendo nuove forze ad essa interessabili. La visione era insieme dettata da un’esigenza elementare, dare un senso di prospettiva ad una campagna elettorale in cui era a rischio la propria esistenza (abbiamo già visto come la cosa ci fosse da tempo ben presente), e da un’esigenza più matura, la necessità per l’Italia, come per l’Europa, di una sinistra capace di porre la grande questione, quella dell’alternativa del modello di organizzazione economica, sociale e culturale della società, quello che altri chiamano il modello di sviluppo. Una questione matura oggettivamente per la natura di questo capitalismo totalizzante e per la crisi di civiltà che esso induce, ma che nessun altra formazione politica propone. Cosa non ha funzionato né punto né poco? Ora, dopo il risultato, si vede chiaramente. Questa visione risultava totalmente, non solo parzialmente, giustapposta alla realtà concreta, alla costituzione materiale della Sinistra l’Arcobaleno che, in tanta parte, la rifiutava e, nel suo insieme, nel suo funzionamento concreto - composizione delle liste, tipo di campagna elettorale, impegno e iniziative di parecchie realtà - la contraddiceva in tutto o in parte. Così quel che veniva negato nell’affermazione “non siamo un cartello elettorale”, risultava essere la pratica concreta. L’errore politico dovrà essere ancora approfondito, ma, se volessimo ricorrere a un linguaggio classico della tradizione comunista, dovremmo intanto definirlo come un errore di volontarismo e di soggettivismo. Errore, in quella tradizione, imperdonabile (a volte fino a conseguenze estreme) perché colpevole di sovrapporre alla realtà il desiderio, l’ambizione del progetto politico. Il fatto che ne siano risultati coinvolti donne e uomini di buona volontà a sinistra e molti giovani non deve impedire di capire più a fondo perché l’idea di “portare a casa la pelle” mediante un innalzamento della posta in gioco, il futuro della sinistra in Italia, sia così duramente fallito. Quel che sembra innegabile è che l’esperienza della Sinistra l’Arcobaleno ha aggiunto altra acqua a quella che, sotto i colpi dell’esperienza del centro-sinistra del governo Prodi, andava tracimando fino ad annegarci. Il risultato elettorale si incaricava di squadernarci davanti, tutta intera, la crisi della sinistra. Nel paese, per la prima volta dalla vittoria contro il fascismo, la destra esce dalla minoritarietà e la sinistra esce dalla scena parlamentare mentre è la sua cultura a diventare minoritaria. Il cambiamento della scena. Struttura e cultura
Nell’ultimo quarto di secolo la scena sociale ed economica è cambiata radicalmente e con essa sono cambiate le culture, i linguaggi, gli immaginari e il senso comune; un cambiamento di scena che ci ha travolto. Abbiamo creduto poco alle nostre stesse analisi, quando esse volgevano a disegnare orizzonti che si chiudevano. La modernizzazione ha disegnato una regressione che giunge sino ai fondamenti della civiltà, alle radici della vita umana. Si afferma un capitalismo che, sconfitto il suo avversario storico, recupera l’antica sua ambizione totalizzante, che lo sviluppo storico della lotta di classe gli aveva imposto di deporre, per investire di sé ogni relazione sociale - ogni persona, i corpi e le menti. Nella sinistra anticapitalista, come nel movimento dei movimenti, sono pure circolate denunce lucide della tendenza; non è sfuggito il carattere mistificatorio delle tesi apologetiche. Si è ben visto che proprio nel cuore della globalizzazione anticapitalistica pulsava la crescita della diseguaglianza, la sistematica produzione di precarietà, di vecchie e nuove povertà e la moltiplicazione di tutti i generatori di insicurezza e di incertezza del vivere. Ma quelle analisi critiche, forse anche per la dispersione degli stessi punti di vista critici e per la mancanza di una loro sistematicità, non sono riusciti a costruire una soggettività critica di massa influente sul formarsi del senso comune, mentre si erodeva il deposito attivo di una coscienza di classe largamente condivisa dai suoi protagonisti sociali. Neanche la pure assai significativa, e ancora utile, nozione gramsciana di rivoluzione passiva ci consente una interpretazione compiuta del processo. L’individualizzazione dei rapporti, che segna prepotentemente il nostro tempo, interviene a ridefinire le appartenenze rendendone mobili e provvisori i confini. Le identità collettive, piuttosto che essere aperte e in progresso, e quindi capaci, dentro percorsi condivisi di emancipazione e di liberazione, di concorrere a formare una coscienza civile in ragione della scelta di un rapporto positivo con l’altro, si rovesciano nell’assunzione dell’opposizione o dell’avversione all’altro, proprio quale elemento definitorio di sé (io sono quello che sta contro te).
La critica nei confronti dell’alto, del potere, sfuma e diventa critica dell’altro, mentre all’individualizzazione viene a corrispondere un nuovo plebeismo. Il contrasto nei confronti di questa tendenza è mancato o è stato del tutto inadeguato. Le componenti moderate del centro-sinistra hanno colpevolmente accompagnato la controrivoluzione culturale, negando in radice l’esistenza stessa del problema del rapporto tra la formazione della coscienza critica (i soggetti antagonisti) e la politica. Le componenti di radicalismo borghese hanno deviato la critica esaurendola nell’avversione al berlusconismo. Ma noi stessi, come in generale la sinistra radicale, abbiamo esercitato su questo terreno solo una debole resistenza, anche per aver ritenuto in larga misura autosufficiente la spontanea costruzione di soggettività critica da parte dei movimenti. E’ assai significativo, a questo proposito, quanto ridotta sia divenuta l’attitudine dei dirigenti politici e degli intellettuali a scontrarsi apertamente all’interno della propria base, di come sia pressoché scomparsa la sana abitudine al conflitto anche aspro delle idee proprio nel rapporto “di massa”. Non si litiga più o, peggio, lo si fa solo tra dirigenti e, spesso, non limpidamente. La pratica della costruzione di culture politiche critiche si è venuta spegnendo. Tanta parte delle popolazioni europee vivono da una lunga stagione, così lunga da aver cancellato dalla memoria sociale quelle dell’ascesa, la condizione di essere dilaniata da bisogni negati, senza neppure la possibilità di credere che il loro soddisfacimento possa realizzarsi domani, attraverso l’agire collettivo e la sua politicizzazione (la buona politica). La solitudine subita si impasta con l’individualismo alimentato in un essere sociale e in una coalizione sociale deprivate di reale autonomia, in cui persino l’altissima giustizia può diventare a volte l’infimo giustizialismo. Quel che di dinamico, di innovativo, di scoperta del futuro c’è nel processo di modernizzazione (e c’è e molto) lavora fuori e contro la ricomposizione sociale in una compagine che possa poi, per le sue vie, praticare il cambiamento. Anche la crescita delle esperienze di comunità, che pure si sono interconnesse con fenomeni assai interessanti di nuove forme di organizzazione economica e sociale oppure sono venute alla luce nelle più rilevanti esperienze di lotta sociale del nostro tempo, non sfuggono, in questo quadro, ad una ambiguità di fondo. E quando l’esperienza la travalica, essa si trova in una terra di nessuno e nelle più parti dei casi il “noi” che trova sulla strada è piuttosto quello che oppone basso ad alto, piuttosto che sinistra a destra. Investiti più direttamente che qualsiasi altra realtà sociale dalla sconfitta degli anni ‘80, i protagonisti della rivolta del ‘68-’69 e dello straordinario ciclo degli anni ‘70 hanno resistito a lungo, seppure con vicende assai diverse tra loro e spesso condannate alla sconfitta; a volte pure ci hanno riprovato a riprendere l’iniziativa. Non si tratta soltanto di sussulti; in qualche caso, come nelle mobilitazioni contro la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori, si apre uno spazio reale per mettere in gioco la tendenza. Ma le componenti che prevalgono, sia nella sinistra che nel sindacato, non possono né vogliono aprire una strada diversa da quella di una cooperazione subalterna alla modernizzazione, qui ristrutturazione capitalista. Il riformismo rinuncia a pensarsi come forte e si stabilizza come componente moderata della politica. L’occasione si ripresenta con la nascita di una nuova soggettività, questa volta mondiale e nascente dall’interno della stessa globalizzazione capitalista di cui contesta la natura dei processi, l’organizzazione del potere, le politiche, le sue forze motrici. E’ l’ultima grande occasione persa. Di Genova resta il volto di una repressione violenta e sistematica per stroncare il soggetto nascente e una potenzialità che, malgrado la tragedia, si era riconfermata vitale e durevole. No. Non era obbligato (si ricordi il moto pacifista, l’orizzonte e le tante pratiche ispirate ad un altro mondo possibile) il decorso che i fatti hanno avuto, né il rapporto tra i movimenti, né tra i movimenti e la politica. Ma, invece, così come sono andate le cose, esse hanno consentito che lavorasse a fondo il versante duro della realtà; ed esso ha lavorato contro il prodursi di soggettività critica. La ristrutturazione operata dal capitale ha messo sotto torchio il lavoro, ha privatizzato saperi, conoscenze, esperienze, processi formativi sia formalizzati che informali. La produzione di nuove forme di organizzazione del lavoro che ne concentrano la potenza di governo mentre diffondono e, persino, disperdono il lavoro esecutivo, si avvale di un salto tecnologico e scientifico, pressoché reso costante specie nel trattamento delle informazioni e nelle comunicazioni, agguantando una rivoluzione nel linguaggio e nella rete delle relazioni interpersonali, mediate, moltiplicate e frammentate dalla tecnologia. Il lavoratore precario, il consumatore indebitato, il cittadino senza partecipazione attiva, la persona incerta sul suo destino entrano in un bussolotto da cui la figura che esce è quel che viene a fissarsi in quell’istante sotto la torsione del meccanismo economico e del pensiero prevalente. L’eclisse delle grandi visioni del mondo e la scomparsa dalla scena del paese dei grandi pedagoghi, costituiti dalle organizzazioni politiche di massa, hanno permesso che si spezzassero, che si rompessero gli argini costruiti nel tempo e con la lotta contro le alluvioni del pensiero dominante. I giovani (la cui condizione e la cui lettura della propria condizione personale e di generazione contiene uno sguardo sul mondo che viene) se, da un lato, esprimono le grammatiche dei nuovi linguaggi con essi, pure, sentono il peso della riduzione del tempo all’istante. Non si escludono, anzi esistono, e come, esperienze che, su questi spartiti, suonano una musica diversa, esperienze che mettono in opera pratiche extramercantili, realizzano pratiche sociali che fuoriescono dai processi di mercificazione e si conquistano spazi e tempi parzialmente liberati. Promesse assai interessanti, ma soverchiate dalla diffusione di una modernizzazione alienante e soffocante. Credo sarebbe utile ritornare sulle analisi dei giovani nell’avvento del neocapitalismo dei primi anni ‘60, non per trovare impossibili similitudini, ma per giovarsi di certi approcci di ricerca, anche nel lavoro di conoscenza da realizzare oggi. Intere costruzioni storiche (che è sempre bene non mitizzare, perché in ogni caso una realtà sociale è sempre complessa e i suoi orientamenti prevalenti sono sempre mutevoli) sono state sottoposte a mutazioni di fondo. Cadono le protezioni storicamente accumulate e anche le realtà operaie vengono investite come ogni altra realtà. Se la cocaina entra in fabbrica, specie nelle nuove generazioni, così come ci dicono inchieste di verità come quella realizzata da Loris Campetti o come ci dicono sindacalisti e operai, la risposta non può più essere quella dello stupore o della negazione, ma quella di capire cosa sta accadendo nel rapporto tra dentro e fuori il lavoro, tra la vita e il lavoro e in che contesto politico e sociale questa mutazione avviene. Il voto a destra di tante operaie e operai è uno scacco drammatico per la sinistra. Non inedito, né fenomeno solo italiano. Ricorda Michael Walzer parlando di un referendum svoltosi negli Stati Uniti, alla fine degli anni ‘60, sulla guerra del Vietnam: “uno studente di Harvard specializzando in Sociologia (nonché futuro direttore di ‘Dissent’) fece uno studio sul referendum del 1967, giungendo a risultati difficili da accettare per i vecchi uomini di sinistra (e anche per quelli nuovi). Per usare la vecchia terminologia, noi avevamo raccolto un forte appoggio da parte della borghesia e praticamente nessun sostegno dalla classe operaia. In termini più scientifici: quanto più è alto l’affitto che pagate, tanto maggiore è il valore della vostra casa e tanto più è probabile che votiate contro la guerra. Che cosa c’era di sbagliato nella nostra impostazione?”. Resta la domanda di Walzer che rinvia ad un’altra questione, ad un grande, gigantesco problema, quello che interroga il formarsi della coscienza di classe. Tema ineludibile, non altro e separato dalla precarietà e dalle culture che in esso prendono corpo. L’accettazione dell’esistenza di due classi operaie sarebbe già lo smarrimento della via necessaria alla nostra ricerca. Le connessioni, i nessi tra condizione sociale e coscienza collettiva vanno proprio indagati nello specifico, come nei rapporti sociali generali. Ci vorrà tanto, tanto lavoro d’inchiesta. Intanto sappiamo di quanto dopo la sconfitta sia stata stringente la solitudine operaia, di come sia sempre difficile risalire dalle condizioni di sfruttamento alle cause economico-sociali di sistema e alle responsabilità politiche che le generano e sappiamo, persino, che sono più eccezionali i periodi in cui i lavoratori possono affermare come tali, come classe, come coalizione di lavoro, il proprio punto di vista autonomo e antagonista, dei periodi in cui avviene il contrario. Quello che è stato chiamato il caso italiano è stato uno di quelli. Ma oggi siamo al suo rovesciamento. Se un operaio critica da sinistra l’accordo sindacale dopo essere stato partecipe della lotta, si iscrive alla FIOM e vota Lega, la cosa non può essere considerata soltanto come una libertà di espressione connessa ai nuovi tempi. La libertà non si discute e neppure il rispetto del voto (sebbene quella capacità di litigare con la propria gente…). Tuttavia neanche si comincia il discorso se non si parte dallo scacco matto che questo rappresenta per qualsiasi sinistra del futuro, una sinistra che consideri imprescindibile, come deve essere, per la sua esistenza, il tema dell’eguaglianza. Se i bassi salari (intollerabilmente bassi), la perdita di diritti e del potere contrattuale dei lavoratori, la precarietà e l’incertezza che diventano i connotati di fondo delle nuove condizioni si rovesciano, come è accaduto, contro la sinistra decretandone la sconfitta, questo non può che essere l’esito drammatico di una lunga storia, oltreché di una vicenda politica e sindacale recente. La formazione del senso comune è un processo dai molti piani il cui filo è sfuggito di mano alla sinistra da lungo tempo. Vi ha concorso, in primo luogo, l’accettazione della delega, il progressivo prendere il posto del conflitto sociale e della partecipazione da parte dell’idea del governo e della partecipazione ad esso. Vi ha concorso, altresì, il farsi strada, sulla politica debole, dell’idea che la soluzione del problema della rappresentanza fosse soprattutto nella capacità di aderire alla società civile, alla sua articolazione, alle sue pieghe, ai suoi movimenti come una carta assorbente; come se il superamento della crisi di ciò che sono state chiamate le ideologie (in realtà di ogni idea forte di società e quindi di trasformazione dell’esistente) fosse possibile soltanto attivando la capacità di ascolto. Se questa è stata la tendenza alla base del riformismo debole, per ragioni assai diverse, ha attraversato anche la sinistra. Ha pesato qui la sopravvivenza di uno schema affermatosi in altro tempo, quello del dispiegamento del conflitto di classe, della diffusione della coscienza di classe in grandi aggregati che proponevano alle organizzazioni sociali e politiche del movimento operaio in primo luogo di saper organizzare e rappresentare quella straordinaria realtà in movimento. Quando su di essa si è abbattuto il combinato disposto di innovazione e restaurazione tipico del capitalismo totalizzante, le idee dominanti sono tornate ad essere le idee delle classi dominanti, come Marx aveva già visto. La diffusione dell’incertezza, della precarietà e del disagio generale generano la paura. La rivoluzione restauratrice ne fa il motore di un rovesciamento, nella percezione di massa, delle cause che le provocano. Il nuovo capitalismo produce il disagio e riesce a nascondere la mano che ne è la causa prima.
La sicurezza sociale diventa incredibile per un popolo senza più protezione. La sua sorte, allora, segue la frantumazione, lo spezzettamento, l’individualizzazione della società e si trasforma nella ricerca della sicurezza individuale e nell’odio per chi sembra esporla a rischio, nell’immediatezza del tempo presente e nello spazio circoscritto del proprio percorso quotidiano. Si vede bene così il peso della questione del senso comune. Con quella della politica sono le questioni degli intellettuali e della cultura che si pongono perciò come ineludibili ai fini dell’uscita dalla sconfitta. Il lavoro culturale va indagato criticamente, come, per altro verso, la politica, nel suo rapporto con la società capitalistica della globalizzazione e nella produzione di linguaggi e di senso. Una cattiva ripresa della riflessione, da cui tenersi lontani, è quella sull’intellettuale organico, sulla storia dei rapporti tra gli intellettuali e l’organizzazione politica come se non fosse storia chiusa da un mutamento che ha investito la figura dell’intellettuale da ormai mezzo secolo e che ha proposto, fin da allora, uno spostamento del baricentro della ricerca dal ruolo dell’intellettuale nella società alla sua funzione. Se non ci si vuole affidare ai francofortesi, basterebbe il lavoro di decostruzione operato sul loro ruolo da un intellettuale come Franco Fortini. Già ci portavano lontano dal rapporto instaurato tra il PCI di Togliatti e gli intellettuali, le ricerche degli anni ‘70, la ricollocazione cercata nell’attraversamento critico delle funzioni dell’intellettuale, cioè delle nuove condizioni di lavoro culturale e nella critica del lavoro intellettuale all’interno del ciclo allargato della produzione. Ed eravamo al tempo del capitalismo della produzione di massa per il consumo di massa e poi nel ciclo politico-sociale dell’ascesa dell’operaio comune di serie e dello studente di massa. Figuriamoci oggi. Sappiamo come quella che viene chiamata l’economia della conoscenza (intanto, non per caso, della conoscenza e non della cultura) è anche, se non soprattutto, all’interno dei rapporti sociali capitalistici, l’esperienza di un intreccio senza precedenti tra economia, scienza e tecnologia. In esso l’estensione del diritto di proprietà fino a comprendere ogni manifestazione creativa della mente e dell’uomo sospinge alla mercificazione della vita sociale e individuale in ogni suo aspetto e alla dilatazione delle diseguaglianze fino a renderle strutturali, organiche e assunte come naturali nel formarsi del senso comune. Le autonomie della ricerca e della formazione vengono così aggredite nelle fondamenta, erose, inquinate, in ogni campo del lavoro culturale, dalla scuola alla produzione artistica, alla comunicazione fin nei pozzi da cui si estrae il linguaggio. In tale contesto non c’è spazio riconosciuto per alcuna autonomia né di ruolo né di funzione. Né intellettuale organico, né maître a’ penser, né testimone di civiltà, ma neppure agente critico-conflittuale. Parlare di pensiero unico è stato ben altro che una provocazione, ha descritto un processo, o almeno, in esso, il prevalente. Il vuoto è stato riempito dall’alienazione delle relazioni sociali e dei linguaggi. Sarà bene non dimenticare chi ha resistito e ha continuato a cercare criticamente ed essere sempre attenti, in ogni momento, a ciò che si sottrae all’omologazione, oggi quando balza alla ribalta qualche film, su questo versante, importante, come ieri qualche rappresentazione teatrale e qualche libro o qualche autonoma produzione di cultura. Bisogna sempre scrutare un qualche affacciarsi di un segno dei tempi che si annuncino come diversi. Ma l’assenza degli intellettuali, fin qui, è stata grave e si è sommata alla desertificazione delle ricerche e del confronto tra di esse anche nella politica della sinistra, senza più luoghi e occasioni per riflessioni di società aperte e sistematiche. Così si è spalancato il vuoto sul terreno che era stato delle grandi agenzie formative mentre il mercato si è fatto sovrano assoluto. Il lavoratore, il giovane, la donna ridotti a individui impauriti sono stati spinti a cercare se stessi non nella modificazione della propria condizione di esistenza storicamente definita da questi determinati rapporti sociali, ricerca che propone il rapporto con l’altro a partire da quello/a con cui condividi la sorte, bensì nella fuga da quella determinata condizione, fuga che non ha bisogno di condivisione alcuna e che contribuisce a considerare la propria condizione come socialmente e civilmente insignificante. La nuova destra trova in questa modernizzazione il semilavorato culturale del suo consenso, del suo farsi maggioritaria. Hanno operato, congiungendosi, due fenomeni di destrutturazione, uno materiale, l’altro culturale. La destrutturazione economica e sociale, sulla doppia e sistematica condizione di incertezza determinata dalla combinazione, in una sola persona, delle condizioni del lavoratore precario e di consumatore impoverito, ha favorito la costruzione della base per la messa in discussione della forza organizzata, influente e condizionante della sinistra e del suo patrimonio storico. La destrutturazione delle grandi soggettività forti ha messo in crisi quelle culture che hanno fatto della sinistra italiana, secondo la formula pasoliniana riferita al PCI, un paese nel paese. Non erano esiti scontati. Come e perché è potuto accadere? Abbiamo provato a vedere le cause recenti (i nostri errori) e, anche, gli spiazzamenti da noi subiti nel grande cambiamento regressivo. Non credo basti. C’è, penso, qualcosa che va oltre. Il cannocchiale deve allora allungare il nostro sguardo. Le eredità mancate
Non era affatto scontato che la lunga transizione italiana si concludesse così, con la destra maggioritaria nel paese, il riformismo sbiadito e impotente e la sinistra fuori dalla rappresentanza politica del paese. Abbiamo provato a capire cosa nel corso concreto della transizione ha prodotto la sconfitta. Ma sul suo esito hanno pesato non poco cause meno prossime che hanno lavorato nel profondo a minare le basi della sinistra nel paese. Credo che esse siano riconducibili, in quella parte, all’irrisolto suo rapporto con la tradizione, con le radici della sua vicenda. Si potrebbe dire che la sinistra ha misconosciuto la parabola dei talenti e così ha contribuito a perdersi. La lezione che quella vuole impartire, fino a sfidare il senso comune, è che ci sono due modi di tradire il mandato e l’aspettativa di chi ti consegna i talenti. L’uno è, certamente, quello di disperderli, di misconoscerne il valore ma l’altro è quello di congelarli così come sono stati trasmessi. Qui da noi è prevalso l’abbandono, la rescissione del legame con la storia, il pensarsi altrove (non oltre), ma è, e resta dura a morire, anche la replica conservatrice, seppure minoritaria. Così nel mondo largo del rapporto tra la politica e le masse si può parlare di un’eredità mancata, di un passaggio storico senza l’elaborazione dell’eredità. Dovrebbe essere evidente che quel che si lamenta qui non è la mancata riproposizione del passato, né una sua lettura acritica, né un soprassalto di nostalgia. Mali da cui, per altro, non ci si distanzia mai a sufficienza. Quel che ha contribuito ad abbattere le resistenze critiche, a dissolvere le culture dell’autonomia dal sistema capitalistico, è la mancata estrapolazione delle verità interne alle tradizioni e la mancata capacità di farle rivivere nelle nuove forme necessarie, al di là degli spartiacque che la storia ci consegna. Se non si vuole fare riferimento, ma sarebbe bene farlo, alla nozione benjaminiana di rammemorazione, basti, per il rapporto cruciale tra presente e passato, un passo famoso del comitato clandestino rivoluzionario indigeno dell’EZLN. Per indicare come gli uomini (sconfitti) di ieri guardano agli eredi si può proprio ricordare un commento di Walter Benjamin: “dai posteri non pretendiamo ringraziamenti per le nostre vittorie, ma la rammemorazione delle nostre sconfitte. Questa è consolazione: consolazione che si dà solo per quelli che non hanno più speranza di consolazione” . Il lascito è: usate la nostra sconfitta per cambiare il mondo. Ed ecco il passo dell’EZLN: “nelle parole dei più anziani tra noi si trova anche la speranza per la nostra storia. E nelle loro parole appare l’immagine di un uomo come noi: Emiliano Zapata. E abbiamo visto il luogo dove dovevano dirigersi i nostri passi per divenire veri e la nostra storia fatta di lotte ha ripreso a scorrere nelle nostre vene, e le nostre mani si sono riempite delle grida dei nostri, e la dignità è ritornata nelle nostre bocche e abbiamo visto un mondo nuovo” . “Le nostre mani si sono riempite delle grida dei nostri”. Invece, nella transizione, tutte le eredità sono state mancate, a partire da quelle del movimento operaio. Col Novecento anche l’Ottocento è stato abbandonato, deprivato di una lettura critica forte. Nella contesa con la modernizzazione ci sono venuti a mancare di quella storia due tratti necessari alla ripresa del cammino della liberazione. La prima è la pregnanza della dimensione mondiale, mai come nel nostro tempo “la mia patria è il mondo intero”, mondo intero che quando non è agìto in disegno politico di cambiamento ci viene addosso nelle conseguenze dei rapporti sociali che si vengono configurando nella ristrutturazione capitalistica, ma con l’apparenza dell’oggettività dei processi. Si pensi soltanto, da un lato, alla competitività delle merci guidata dalla sfida concentrata sul basso costo del lavoro e sulla alta flessibilità, e ai processi di migrazione dai paesi poveri del mondo. L’anticapitalismo e la lotta di classe, verità interne fino alla liberazione nella storia dell’umanità, piuttosto che essere portate fuori dalla sconfitta e dalle tragedie che ne hanno segnato il corso, che pure non si è esaurito in esse, sono state per lo più misconosciute e, quando non lo sono state, non sono diventate parte di un lavoro di ricostruzione, con altre istanze critiche che si sono affacciate, prima tra tutte la differenza di genere, di una cultura e di un’alternativa capace di far vivere un punto di vista di massa. L’Italia è il paese che ha avuto il più grande partito comunista dell’occidente e il più importante sindacato confederale di classe d’Europa; l’Italia è il paese che ha costituito per densità della società civile, livello e ampiezza del conflitto sociale, conquista di elementi di una diversa società, allargamento e arricchimento della democrazia, che ha dato vita ad un caso, il caso italiano, appunto. Quasi non c’è più traccia nella politica organizzata di tutto ciò e persino la memoria si è pressoché dissolta. L’eredità mancante non riguarda tanto la strategia, la linea politica delle grandi organizzazioni del movimento operaio quanto il legame sociale che con esse si era venuto costituendo nel paese, il realizzare con esse di forme di socializzazione, di comunità, il fare società. Quale che sia il livello di condivisione o di critica che l’esperienza del PCI nelle diverse fasi della storia del dopoguerra può incontrare oggi in noi, due considerazioni possono essere fatte, nell’economia della nostra ricerca sulle cause della sconfitta. La prima è che l’esito compromissorio di quella politica quando c’è stato, e c’è stato, non derivava da quei legami di società, da quell’insediamento sociale, da quella comunità di donne e uomini che hanno costituito un paese nel paese, per usare ancora le parole di Pier Paolo Pasolini, un mondo che avrebbe potuto anche contemplare, invece che quegli esiti, altri di assai più radicale cambiamento. La seconda considerazione è che l’antagonismo, la critica alla società capitalistica non vive a lungo senza forme organizzate della politica che facciano parte della vita quotidiana, materiale e culturale, di tanta parte della popolazione. E senza un’autonoma organizzazione sociale dei soggetti critici, e senza una possibilità, per questa via, di alimentare nuova coscienza di classe non vive a lungo neppure una democrazia che corrisponda alla sua promessa di fondo. La mancata eredità delle organizzazioni che hanno prodotto legame sociale conduce ad una riflessione sull’altro grande protagonista di quella storia, il sindacato. Credo sia giunto il momento di una discussione a fondo, non di maniera, sul peso delle scelte del sindacato nella crisi della sinistra. E’ una discussione difficile che non accetta semplificazioni, accuse di chissà quali tradimenti. L’autonomia delle organizzazioni sociali da quelle politiche è tema troppo impegnativo per essere trascurato, le sue politiche rivendicative, le relazioni sindacali vanno trattate con molta attenzione e conoscendole approfonditamente, ma ora si pone una questione di società. La domanda è: la storia del sindacato confederale di classe, la storia del sindacato di Di Vittorio dell’autonomia dai padroni (attenti ai nomi), dal governo e dai partiti fino alla rivoluzione del sindacato dei consigli, cioè la storia del sindacato la cui autonomia è in primo luogo l’autonomia dall’impresa capitalistica, ha un seguito oggi, ha avuto una rielaborazione su quella stessa via? Oppure siamo di fronte ad un’altra delle eredità mancate che ha a che fare direttamente con la questione della coscienza di classe e dunque dell’autonomia del sistema? E’ indifferente per il sindacato se un suo militante (tanti) vota per un partito come la Lega? Penso che l’istituzionalizzazione del sindacato sia il processo concreto che è in corso di sviluppo nelle relazioni sindacali nel nostro paese, un processo per molti aspetti inverso a quello che Daniel Guerin ricordava essere vissuto nel passaggio dall’AFL al CIO, il passaggio da freddi uffici di tutela dei lavoratori alla casa dove “le conoscenze venivano trasformate in passioni” e donne e uomini prima condannati alla passività e all’accettazione dell’esistente si affacciano alla partecipazione della propria riscossa. Di questo passaggio, dall’autonomia del conflitto all’istituzionalizzazione del sindacato, è indicativa la questione elementare e fondamentale del salario. Il tema principale che esso pone, reso più acuto dalla competitività della globalizzazione, è quello del rapporto tra salario e profitto, così come tra lavoratore e impresa. Ebbene proprio questo si è perso nel porto delle nebbie della concertazione e delle nuove relazioni sindacali, sostituito da quella tra salario e prelievo fiscale (non c’è più il conflitto con l’impresa, resta solo quello con lo Stato). Cancellato il tema decisivo del conflitto collettivo con il padronato, il lavoratore si trova ridotto, anche sul tema distributivo, a puro cittadino, dove la relazione del salario è tutta racchiusa nel rapporto col fisco, e il suo rapporto con l’impresa diventa possibile preda, anche per le retribuzioni, dell’individualizzazione dei rapporti. L’asimmetria di potere tra impresa capitalistica e il lavoratore diventa permanente, un destino. Certi rovesciamenti del punto di vista sull’”altro” e sul mondo non sono soltanto imputabili alla forza della rivoluzione restauratrice guidata dal capitale, alla sua potenza di scompaginamento, alla destrutturazione e alla formazione di nuovi alfabeti e nuove grammatiche. Sono mancate, anche potevano essere ricavate da esperienze della nostra storia, le leve su cui far forza. Sul ‘68-’69 corre in Francia un gran dibattito, in Italia no. Eppure in Italia il biennio rosso dura un intero decennio e in esso prende corpo una delle più rilevanti storie politiche dell’occidente nel nostro tempo, il sindacato dei consigli: l’esperienza di una democrazia partecipata in cui si sperimenta un rapporto tra lotta e ricerca, tra esperienza e scienza che dà luogo ad una cultura critica di massa. Anche in questo caso, intendiamoci, nessuna propensione ad un atteggiamento acritico, a non leggere errori dalle conseguenze negative ancor oggi presenti, ma non c’è nella mancata formazione di una sedimentazione culturale, appunto nella mancata elaborazione di un’eredità come quella della critica alla presunta neutralità della scienza e della tecnica e di un’eredità come quella della partecipazione conflittuale l’incapacità di far vivere, oltre quella storia finita e sconfitta, la sua verità interna, che avrebbe potuto fruttificare invece che consegnarci all’ineluttabilità della forbice tra innovazione e crisi di civiltà? Ecco perché ora, almeno, dopo la grande sconfitta tocca raccogliere l’invito di Claudio Napoleoni, cercate ancora. Per cercare la strada della ricostruzione della sinistra in Europa, che è la dimensione minima necessaria perché il tentativo si confronti con una contesa che è mondiale, dobbiamo ragionare a fondo sulla nostra sconfitta, sulle cause prossime e più lontane, di questa rotta. Un anno fa parlando delle elezioni presidenziali francesi, dicemmo: attenti, “de te fabula narratur”. L’Italia è un caso limite, non un’eccezione. Per ricominciare, per indagare con efficacia il che fare, non va mollata la presa su questa ricerca e bisogna costringerci a farla insieme a tanti altri. Quello, il che fare, resta il rovello principale, la necessità prima della politica. Ma questa volta non c’è la possibilità di uno scatto attivistico. Certo sarà decisiva la reimmersione della sinistra nella vita quotidiana della sua gente e degli “altri”. Se si può ironizzare su difficili fatiche che ci aspettano sarà necessario anche “servire il popolo”, e ancor più sarà necessario costituire legame sociale, pratica sociale, luoghi e tempi condivisi. Così come, alla stessa stregua, e proponendo, con queste esperienze, una connessione non solo sentimentale (ma anche), sarà decisiva la ricerca di una cultura critica del capitalismo totalizzante, capace di crescere con l’antagonismo, per le sue strade. Non si intraprende però né l’una né l’altra impresa senza indagare insieme e, insieme, facendo dolorosamente i conti con la causa della nostra sconfitta. Questo è oggi il primo banco di prova. Se è vero che la Gerusalemme può anche essere non solo rimandata, c’è in primo luogo da fare un esercizio di verità: siamo ad uno dei punti più difficili della nostra storia. Come diceva Gramsci, c’è bisogno di tutta la vostra intelligenza.

Ferrero, Grassi e il Partito del pomodoro (strano ma vero!)

di Giusto Catania*

Stupisce molto leggere dell'improvviso innamoramento, da parte di alcuni compagni, per il Partito del pomodoro, cioè il Partito socialista olandese.
Ho grande difficoltà a comprendere l'affinità politico-culturale tra tale organizzazione e ciò che ci viene proposto dai compagni Fererro e Grassi nel loro documento congressuale.
Il Partito socialista olandese nasce nel 1971 sulla scorta delle contestazioni giovanili della fine degli anni sessanta e, ispirandosi alla tradizione maoista, si chiama inizialmente Partito Comunista Olandese/Marxista Leninista.
Un anno dopo sceglie di chiamarsi definitivamente Partito Socialista, abbandonando lentamente la tradizione comunista dai suoi riferimenti ideologici e scegliendo come simbolo il pomodoro. Né falce, né martello, né altre simbologie riconducibili al mondo del lavoro.
Il pomodoro era l'emblema della contestazione giovanile perché era l'ortaggio lanciato, durante le manifestazioni di protesta, contro il potere costituito, la borghesia capitalistica e la polizia.
Per tanti anni è stata un'organizzazione residuale nella politica olandese fino a quando nel 1994, per la prima volta, riesce ad entrare in Parlamento. Da lì è cominciata una progressiva crescita che, in poco più di dieci anni, lo ha trasformato nel terzo partito dei Paesi Bassi.
Per questa ragione, certamente, vanno riconosciuti meriti straordinari ai compagni olandesi. Sono diventati protagonisti della vita politica del Paese e la loro ricerca culturale, il loro modello organizzativo, le scelte politiche consumate in questi anni sono certamente incompatibili con la proposta politica avanzata nella mozione congressuale "Rifondazione in movimento."
In questi ultimi anni, il Partito socialista olandese ha scelto di costruire un'organizzazione plurale, in cui le culture politiche si potessero contaminare o vivere come opzioni culturali distinte dentro lo stesso corpo organizzato. Nel loro statuto si auto-definiscono "democratici e socialisti" e il comunismo, per loro, è assolutamente una tendenza culturale i cui elementi scientifici di analisi della società sono reperibili esclusivamente come patrimonio del dibattito interno.
Sono certamente di sinistra, di sinistra radicale e libertaria. Ma non comunisti. In molte analisi e battaglie sono affini a noi: la critica alla globalizzazione, l'analisi delle nuove contraddizioni, la difesa dell'ambiente, le sovrapposizioni tra le vecchie e nuove contraddizioni, affiancando alla classica contrapposizione capitale/lavoro la difesa dei diritti civili, le battaglie in difesa di migranti e omosessuali.
Sono tuttavia nazionalisti ed euroscettici, non aderiscono al Partito della Sinistra Europea e la loro giusta critica all'Europa dei mercati è viziata da forme di esaltazione identitarie locali che li ha indotti ad appoggiare l'auto-dichiarazione d'indipendenza del Kosovo.
Sono riusciti a costruire un partito radicato nella società (circa 45.000 iscritti) e nelle vertenze sociali, infiltrando militanti del Partito nelle organizzazioni di massa, nel sindacato e vivendo la loro attività come cinghia di trasmissione col Partito che, in questo modo, ha vissuto la sua attività politica in connessione con le lotte sociali, spesso lasciando prevalere l'autonomia del sociale alle scelte politiche. Hanno costruito pratiche di lotta e di disobbedienza civile molto interessanti che, da Seattle a Genova, sono state presenti nel nostro dibattito teorico e nella nostra iniziativa diffusa.
Molti osservatori olandesi ed internazionali ritengono che una delle cause importanti della crescita del Partito Socialista olandese è da ricercare nelle straordinarie doti carismatiche e di comunicazione del suo leader indiscusso. Non è un caso che, per questa ragione, la stampa e gli analisti olandesi spesso hanno accostato Jan Marijnissen a Fausto Bertinotti.
Marijnissen è contemporaneamente capo del Partito da quattordici anni, capogruppo alla Camera, faccia televisiva del partito e l'uomo che dice sempre l'ultima parola su tutte le decisioni.
Il modello organizzativo del Partito Socialista olandese è esageratamente verticistico, il ruolo di Marijnissen è predominante su tutto il resto del gruppo dirigente, negli organi di stampa olandesi il Partito del pomodoro è comunemente chiamato "il Partito di Marijnissen."
Sulla base di queste ulteriori considerazioni mi sembrano ancor più strumentali le critiche avanzate da Ferrero e Grassi al tentativo che sta facendo una parte del nostro Partito di ricercare una figura carismatica e comunicativa, come Nichi Vendola, per ricostruire un nuovo ruolo di Rifondazione Comunista nella società e nell'agone politico.
Sulla base di tali considerazioni non riesco a comprendere il tentativo di questi compagni di identificarsi col modello olandese.
Non posso credere che l'unica questione che appassiona i compagni della prima mozione, e che giustifichi la nuova e improvvisa passione, sia il fatto che i parlamentari del Partito Socialista Olandese guadagnino duemila euro al mese e il resto lo devolvono al Partito.
Mi pare un argomento strumentale che agita un pezzo dell'antipolitica, che evidentemente ha pervaso anche noi. Inoltre, in questa fase, mi pare un argomento fuori luogo visto che non abbiamo più rappresentanza in Parlamento e infine mi sembra ingiusto omettere che il regolamento di Rifondazione Comunista non si discosta molto da tale pratica, considerato che i nostri parlamentari versano il 60% della loro retribuzione complessiva al Partito.
E se l'affinità coi compagni del Partito del pomodoro fosse solo una questione di propaganda interna esclusivamente per strappare qualche voto nei congressi di circolo…

*Eurodeputato del Prc