Benvenuti!

"Non voglio restare impermeabile, voglio imparare, perchè, come diceva Pasolini, la partenza è il dolore del parto, ma anche la gioia della nascita. Siamo tutti chiamati a partire, del resto siamo un partito non un restato"

Nichi Vendola, Venezia 2005

http://www.nichivendola.it/

NASCE IN TERRA DI LAVORO "RIFONDAZIONE PER LA SINISTRA"


Giovedì 31 Luglio ore 11.30
presso la Federazione PRC di Caserta

CONFERENZA STAMPA

interverrà il Compagno Peppe De Cristoforo

sabato 17 maggio 2008

Le streghe, i giudei, gli zingari

di Nichi Vendola


Il fuoco è tornato. Violento e purificatore. Illumina la processione nottambula dei rancori e dei pregiudizi. Incenerisce la retorica degli "italiani, brava gente". Divampa nella neo-lingua italiana, ormai libera da ogni forma di sorveglianza e di auto-controllo, visto che il nuovo lessico del trash televisivo unifica la nazione e le classi sociali. Sputa le sue lingue incandescenti sull'uomo nero e sulla sua intera etnia: rom, rumeni, sinti, tutti assunti a fattispecie lombrosiana di quella antropologia criminale con la quale abbiamo inzuppato immaginario e senso comune. Ecco dunque il fuoco che condanna all'esorcismo e alla cenere quella macchia extra-umana, quello "zingaro ladro di bambini" che risorge come un antico rimosso nello spigolo sporco della nostra più malata modernità. Eccolo il Medioevo che avanza, corredato da Internet e da You Tube, mentre l'establishment tutto finge di non vedere. Eccola la legalità bipartizan che osserva imperturbabile l'opera scientifica di pulizia etnica messa in campo dagli eserciti camorristi nello sterminato hinterland partenopeo. Complimenti all'Italia riconciliata nel galateo parlamentare, dove si celebra non tanto la fine della "guerra civile" simulata che ha reso urlata e viscerale la politica al tempo dell'avvento di Berlusconi, ma dove si rende solenne l'esaurimento forzoso della politica come spinta conoscitiva e trasformatrice degli assetti sociali dominanti, dove si canta il de profundis alla politica intesa come alternativa, passione civile, persino utopia. E anche della politica intesa come discernimento individuale e memoria collettiva: potremo raccontare a qualcuno dei nostri figli, magari quelli con la testa rasata, magari quelli appesi sull'altalena di piccoli miti miserabili che miscelano lo stadio di oggi e il lager di ieri, cosa accadde quando, neppure troppo tempo fa, altre squadre giovanili, altre ronde di giustizieri, cercarono di "derattizzare" la bella Mitteleuropea dalle untuose presenze degli zingari? Sapremo dire che l'industria dell'orrore fu alimentata dalle parole cattive, dalle facili superstizioni, dall'ignoranza diffusa? Sapremo dire di quelle tribù nomadi che, con le loro leggende e i loro cammini di libertà, con gli echi gitani o balcanici dei loro suoni e delle loro poesie, conobbero il gelo dei vagoni piombati, e poi cominciarono un viaggio senza ritorno, e poi fecero la doccia nelle camere a gas, e poi finirono su per il camino dei forni? Duecentomila morti tra quei nomadi che la croce uncinata strappò dai villaggi. Non c'è più nessuno che capisca che stiamo toccando il fondo? Nessuno che alzi la voce contro chi umilia la vita degli altri? Questa inaudita legittimazione "politica" dell'intolleranza non sarà solo una livida girandola di violenza anti-rom, ma diventerà la cifra di un tempo nuovo e assai inquinato, di un'atmosfera mefitica e cupa, dove ciascuno potrà appiccare il suo rogo personale, perché non c'è nulla di più facile che offrire alla folla inferocita un povero cristo da crocifiggere, un capro espiatorio il cui sacrificio non risolve alcun problema ma almeno sazia la sete di sangue che non abbiamo mai del tutto estinto. Altro che galateo. Non si è più in grado di vedere il respiro di un bambino dentro l'immagine di un piccolo rom, non c'è analisi possibile di problemi complessi, non c'è più neanche pietà. Anche la Chiesa appare prigioniera delle proprie prudenze. Non c'è nessuno che asciughi le lacrime di uno zingaro dopo che gli abbiamo bruciato la baracca spingendolo ad un nuovo esodo verso il nulla. Siamo ancora alla prese con eretici e streghe e sodomiti e giudei, ancora abbiamo bisogno di celebrale l'igiene del mondo, ancora subiamo il fascino del fuoco. Nel nome di una legalità affidata alla polizia speciale della camorra. Siamo camorristi ma legalitari, questa non è il nazi-decoro borghese di Verona, questa è la Napoli che fu la capitale dell'accoglienza e dell'umanità. Sta bruciando un intero mappamondo di sentimenti, di valori, di cultura, di coscienza: tutto sembra trascinato in quei fuochi notturni. Altro che sconfitta elettorale. Siamo senza radici in questa immensa babele di monnezza e cenere, dinanzi a riti di purificazione e violenza che suscitano il plauso populista. Forse è anche questo il deserto che dovremo attraversare.

Da Liberazione 17/05/08

Per risalire la difficile china. di Nichi Vendola

da Il Manifesto 16 Maggio 2008
Siamo ancora frastornati e confusi. Con una accelerazione violenta e persino drammatica l'Italia, dopo un quindicennio di turbolenta transizione, si è risvegliata a destra, anzi «di destra». I suoi umori, le sue culture, la sua figurazione del mappamondo della globalizzazione, il ribollente magma di sogni e di paure che abitano l'immaginario collettivo, insomma proprio tutto è parso scomporsi e ricomporsi dentro la narrazione di una nuova specie di radicalismo ideologico.
La destra ha parlato una lingua non solo chiara ma anche «adesiva», mimetica, capace di dare identità a corpi sociali drammaticamente frammentati e assai spaventati. Il fantasma della «casta» ha movimentato la discussione pubblica, liberando frustrazioni e risentimenti, moltiplicando cinismo e disgusto, catalizzando un odio figlio dello smarrimento, del senso di precarietà, del corto-circuito tra consumismo totalitario e crisi economica incombente.
E se, negli anni '70, la metafora pasoliniana del «Palazzo» alludeva a un potere omertoso e colluso, nei cui sottoscala si incrociavano cospiratori di varia natura, ma nei cui piani nobili andava in scena la rete anche illecita di scambi tra politica e economia (quella che Eugenio Scalfari denominò «razza padrona»), oggi la «casta» appare metafora assai più livorosa ma del tutto inerte: come una pietra scagliata contro un ceto politico esposto a quella delegittimazione che non scalfisce nessuno degli altri poteri. Infatti il sistema d'impresa, il circuito dei mass-media, la gerarchia ecclesiastica, gli apparati giudiziari, le corporazioni più varie, nessuno di questi attori protagonisti della vita sociale ha conosciuto la gogna a cui è stata esposta la politica.
La comunità virtuale e la piazza reale di Beppe Grillo hanno poi rotto gli argini «di sinistra» al dilagare della semplificazione qualunquista, dell'esercizio della parola come corpo contundente, della predicazione urlata e solitaria che surroga la fatica corale del pensiero e dell'azione. La contesa politica, a dispetto della sua torsione bipolare, ha smesso di essere contrapposizione insieme simbolica e materiale di progetti di società, e si è progressivamente ridotta al rango di talk-show. Da destra e da sinistra è stata scorticata viva la differenza tra destra e sinistra. E per la destra la morte della politica non è una eutanasia, ma una formidabile resurrezione in forme nuove: come pelle di un corporeità sociale che non deve più indossare gli abiti dell'incivilimento e della convivenza, come vitalismo immediato del turbo-capitalismo del nordest mescolato al brusio popolare di ogni periferia, come rancore anti-fiscale che unisce proprietari e proletari. E dunque la destra e la sua lingua hanno aderito elasticamente al basso ventre della nostra società: e le elezioni hanno rappresentato il grande e disinibito ritorno dell'ideologia, della politica «forte», delle identità viscerali; solo il Partito democratico ha rimestato tra gli avanzi di un pragmatismo incolore, chiamando riformismo un intero repertorio di subalternità all'agenda della destra (dalla sicurezza alla flessibilità).
La sinistra moderata dapprima ha liquidato la lotta di classe come un residuo ideologico, conseguentemente ha derubricato il conflitto sociale a caos e violenza, poi ha messo in una campana di vetro la memoria storica delle lotte, poi s'è pure smarrita l'orientamento sessuale, infine si è suicidata nel nome della reincarnazione governista. Il passaggio, nelle figure di riferimento, dal lavoratore al cittadino al consumatore, è stato fatale, ha aperto la diga e la destra ci ha alluvionati. La letteratura frizzantina di Veltroni, nonostante la sapienza del marketing, non buca il cuore dei «popoli italiani» (tribù, lobbies, corporazioni) e rimbalza sulle barriere architettoniche della grande Periferia urbana e sociale in cui abita lo sgomento dei non garantiti e la paura del ceto medio terremotato. Che schianto! E noi, quelli che alle ragioni sociali e ideali della sinistra hanno dedicato tutta la vita, noi abbiamo solo intuito, ma non capito. Oscuri presagi con qualche affanno analitico. Forse l'arcobaleno è stata la gaffe di chi presentiva il diluvio universale. E ora ci tocca nuovamente attraversare il deserto, risalire la china, dare coraggio a quelli e quelle che vogliono reagire, prenderci cura gli uni degli altri, riaprire quei cantieri dell'innovazione che sono indispensabili per restituire fascino, credibilità, efficacia politica e radicamento sociale alla sinistra di alternativa.
Personalmente sono molto spaventato: ma non disperato. Ho imparato proprio da il manifesto, dai pensieri lunghi e difficili e necessariamente aspri di Rossana Rossanda, quanto sia importante darsi luoghi e tempi di riflessione collettiva sul «Che fare?»: il congresso di Rifondazione non può essere una liturgia chiusa, un problema dei militanti e dirigenti di quel partito, e soprattutto non può essere una grottesca resa dei conti tra quelle vecchie appartenenze che risvegliano le loro cellule tenute in sonno. Salvare Rifondazione per ricostruire la sinistra, ecco una discussione da fare all'aperto, con tanti e tante anche fuori da noi.
La sinistra, benché battuta e dispersa, è molto più lunga e più larga di quanto non siano le sigle di chi prova a rappresentarla politicamente. Oggi abbiamo bisogno di ascoltare le voci di dentro ma anche le voci di fuori. Se il mio partito si chiuderà a riccio, saziandosi delle proprie conte interne, predisponendosi al galleggiamento e alla sopravvivenza, allora avremo davvero interiorizzato fino in fondo la sconfitta. Restaurare il passato è un modo di arrendersi al presente e di rinunciare al futuro. La sinistra non credo abbia bisogno di un altro suicidio.

venerdì 16 maggio 2008

«Il comunismo? E' una domanda non certo un modello»

Anubi D'Avossa Lussurgiu

Nikita Vendola, dopo il Comitato politico nazionale che ha deciso le modalità del congresso di Rifondazione comunista, hai ufficializzato la tua disponibilità ad assumere, al termine di questo stesso confronto congressuale, il ruolo di segretario del partito. Tu, che sei già presidente della Regione Puglia, risulti ora il solo candidato segretario. Ci riassumi le ragioni di questo passo, accolto non senza polemiche da parte di altri nell'attuale dialettica interna al Prc?

Guarda, ci tengo veramente a discutere in maniera aperta della mia candidatura. Perché credo che la discussione vada liberata da qualsiasi equivoco o argomento capzioso. Io sono presidente di una cruciale regione del Sud. Svolgo un ruolo che è di grandissima delicatezza e straordinario impegno e che è considerato uno dei vertici del potere. Ora mi lancio in una sfida terribile. Ho attorno a me una comunità ferita, un partito cancellato dalla rappresentanza parlamentare, gravemente sconfitto, diviso. Chiunque volesse alludere ad un mio desiderio di "carriera" dovrebbe avere il senso dello humor . Vorrei dire che la mia scelta fosse letta per quello che è: un atto di assoluto amore nei confronti di quella casa (il mio partito) che ho contribuito a far nascere e che è diventata parte integrante della mia stessa vita.

E però Paolo Ferrero, così come aveva proposto un congresso a tesi piuttosto che a documenti contrapposti, ha interpretato la tua candidatura come qualcosa di distante da un necessario spirito unitario. Che cosa rispondi?

Che bisogna smetterla di giocare a quelli che gridano «al lupo, al lupo!». Certi compagni si comportano in perfetta aderenza allo spirito dei tempi, mettendo al centro della politica e delle passioni il sentimento della paura. Desidero essere molto chiaro: mi è capitato spesso di essere accusato di voler sciogliere. Anche di voler sciogliere il Pci, magari da parte di quelli che effettivamente lo sciolsero. E nella storia di Rifondazione comunista ciclicamente torna questo tormentone, che è l'argomento demagogico usato da tutti coloro i quali pensano sia sufficiente richiamarsi all'identità: come se l'identità fosse il terreno delle certezze assolute e non viceversa il cammino accidentato alla ricerca dei luoghi e dei soggetti della trasformazione. Questa visione dietrologica e complottista è sbagliata, induce riflessi viscerali ed è abbastanza improponibile da parte di chi ha usato la sconfitta elettorale per un pesante regolamento di conti interni.

L'argomento della critica alla tua candidatura, comunque, si appunta sull'annuncio immediato, all'apertura del percorso congressuale: bisogna sfuggire, si dice, al rischio d'una piega presidenzialista...

Tutta questa cautela sulla questione della leadership avrebbero dovuto metterla in campo prima, in quel Cpn in cui invece hanno pensato bene di prendere un'intera leadership e di dividerla in due: una parte per esporla al bombardamento delle critiche, e l'altra invece per immunizzarla, salvagualdarla da qualunque tensione nel bilancio delle responsabilità. Devo dire che c'è qualcosa che per me ha rappresentato davvero un vulnus insopportabile: il processo sommario a Bertinotti e Giordano è stato una spettacolo poco consono a quello che dovrebbe essere il nostro costume collettivo. E invece la correttezza di Franco (Giordano, ndr ) non solo nel fare un passo indietro ma nel chiedere lo stesso a tutti i responsabili della direzione politica del partito e a tutti i suoi massimi rappresentanti, era un atto di grande lealtà. D'altronde è un classico: di fronte ad uno sconquasso di tali proporzioni si può reagire in due modi, o aprendo un confronto libero e vero, spietato ma anche capace di stringere la rete della solidarietà, oppure precipitando in una faida interna agli apparati e ai gruppi dirigenti. Io mi sono permesso qualche minuto dopo la sconfitta elettorale di dire in conferenza stampa: per piacere, compagne e compagni, non cerchiamo i colpevoli ma cerchiamo tutti insieme le cause. Purtroppo quest'appello è caduto nel vuoto. E allora oggi chiedo a tutti, per lo meno, di archiviare le ipocrisie. Naturalmente, a tutti e a cominciare da me stesso, chiedo uno sforzo supplementare per mettere al centro il tema vero della discussione congressuale.


Ecco: qual è, per te, l'oggetto politico fondamentale di questo congresso? E' cosa dovrà essere questo partito in una stagione culturale e politica così segnata dall'egemonia delle destre. E' il "che fare" in questo vuoto pneumatico di rappresentanza politica delle domande di sinistra.

Bene, ma prima di sviscerarlo, approfitto della tua risposta per soffermarci ancora un momento sulle divisioni attuali: ancora Ferrero dice, mi pare, che non c'è vuoto pneumatico ma una diversità di soggetti politici. E che dunque «la costituente della sinistra» dividerebbe, tanto che la chiama «socialista» per dire che tende ad escludere «i comunisti»: mentre al contrario servirebbe «una casa più grande, dove possano stare tutti».

Tu che ne pensi?

Vorrei diffidare tutti dall'inabissarsi nelle dispute nominalistiche. E guardiamo le cose che sono dietro le parole. La federazione come modello di relazione tra i diversi soggetti della sinistra è esattamente l'opzione che ha portato all'esperienza fallimentare de "la Sinistra l'Arcobaleno". Prendi quel poco che c'è, lo sommi e magari cerchi una cartolina illustrata che evochi un'ipotesi di convivenza. Ma questo è davvero il modo di sfuggire al grande tema che è quello di come si ricostruisce una sinistra di popolo.

La quale invece cosa e come sarebbe?

Intanto, il contrario della somma algebrica delle cose talvolta contraddittorie che sono in campo. Il problema, invece, è il processo costituente di questa sinistra di popolo. Il processo costituente non è la convocazione di un'assemblea che fa nascere chissà che cosa: è un processo di costruzione, nella politica e nella società, nei luoghi di lavoro e nei quartieri, nelle scuole, in tutte le comunità, di reti che mettano in collegamento sensibilità, culture, esperienze, conflitti. A partire dal confronto con quel dato sconvolgente che è la mutazione di tutte le forme di comunità, da quella urbana a quella di lavoro. In quell'ipotesi che abbiamo ad un certo punto condiviso, quando parlavamo di nuova soggettività unitaria e plurale, non stavamo pensando ad un partito: altrimenti, l'avremmo chiamato apertamente così. Il tema di come si ricostruiscono le forme dell'agire politico di massa, noi ce lo siamo già posti quando c'era il Pci che, diciamo, le masse le frequentava: intendo per noi quelli come me che hanno criticato la forma partito e le sue liturgie. Il punto oggi è fare politica da sinistra in una società disgregata e atomizzata, in un mercato del lavoro che frammenta le grandi identità collettive, in una condizione urbana che ferisce i legami sociali, in una crisi radicale di tutti quei consorzi umani che sembrano ormai abitati dalla lingua del trash della tv commerciale. E' un tema gigantesco quello che abbiamo di fronte, altro che piroette politicistiche, voli pindarici - sciolgo un partito, ne faccio un altro...; quasi si trattasse di stare in laboratorio a giocare con l'alchimia del politico. E' esattamente il contrario. L'assillo è: come si riconnette la politica alla società, come la politica diventa principio di identificazione dei corpi sociali.

A proposito di crisi dei consorzi umani: non pensi che la ricostruzione di un linguaggio politico debba anche riconoscere nuove forme di vita, di relazione, nuove pratiche e identità sociali?
Assolutamente sì. Le nozioni di spazio e di tempo sono saltate. Quando si dice oggi "territorio" non si può pensare ad un'entità statica. Anche Beppe Grillo occupa un territorio, a partire dal suo blog . Non c'è più una relazione meccanica tra territori e comunità, anzi ce ne sono di molto abitati ma senza comunità, compresi tanti territori del lavoro. Uno potrebbe dire: e se non c'è comunità, come potrebbe mai esserci comunismo? Il filologo, se non trova più la radice non solo etimologica ma materiale, non sa dare più significato alla parola. Allora, il tema è la rifondazione dei consorzi umani e della loro possibilità di liberazione. Aggiungo che questo comunismo oggi si propone necessariamente come una grande ricerca, una grande domanda: perché se si presentasse come l'organizzazione d'un campo internazionale o d'un modello da emulare, saremmo non alla reiterazione delle tragedie del passato ma al grottesco. Lo dico perché le miniature caricaturali dell'internazionalismo del Novecento oggi si presenterebbero come l'esatto contrario rispetto alla cultura del movimento altermondialista. E poi: non è che noi possiamo essere pacifisti contro gli Usa e muti rispetto alle politiche di iper-armamento di altre parti del mondo.Non è che siamo super-ambientalisti rispetto alla produzione di emissioni di anidride carbonica da parte dell'Occidente industrializzato, e siamo poi muti rispetto all'industrializzazione in corso in Cina e ai suoi effetti ambientali. E non è che i diritti umani possono avere un peso differenziato a seconda della collocazione sul mappampondo della loro violazione. Insomma: non si può più parlare con lingua biforcuta. La menzogna non può mai e in nessun caso essere giustificabile perché c'è una prospettiva salvifica davanti a noi. Il registro delle doppie verità, o meglio della doppiezza, è elemento d'una storia che io considero finita. E' il mondo intero con le sue contraddizioni e i suoi dilemmi che ci propone la necessità d'un discorso di verità da costruire. Verità sui rapporti di produzione, sulle aggressioni alla biosfera, sulla violenta gerarchizzazione dei rapporti tra i generi sessuati, sul contenuto crescente di violenza nella cultura generale del nostro tempo. Dunque, siamo chiamati a pensieri lunghi. E contemporaneamente a tenere i piedi ben piantati per terra...

A proposito: volevo proprio chiederti se c'è qualcosa da dire su che si fa qui ed ora, in Italia, da quest'estate 2008...

Certo che c'è. Ci sfida l'agenda del governo Berlusconi, dal federalismo fiscale alla psicosi dell'insicurezza, dall'attacco all'autonomia del conflitto sociale alla paura delle nuove libertà e delle nuove soggettività. Ma c'è molto di più, per l'agenda nostra. C'è ciò che della vita delle giovani generazioni ci racconta la tragedia di Verona. C'è quella mutazione antropologica che si intravede nella quotidiana ripetitività del bullismo adolescenziale, che indica davvero un buco nero di umanità e di valori. E' paradossale: la crisi del nostro tempo è talmente radicale che chiede pensiero forte e radicali risposte. Berlusconi ha vinto con la forza del suo radicalismo - populista, liberista, piccolo borghese. Ha vinto esiliando i centristi dalla sua coalizione. Ha vinto sconfiggendo l'immagine più imprenditoriale e antiradicale del centrosinistra, come quella di Riccardo Illy. Ha vinto presentando per il governo della capitale l'ideal-tipo della destra sociale e radicale, Alemanno. E il Partito democratico è apparso persino inconsapevole di quale fosse la qualità della sfida e di quale fosse il terreno su cui da lungo tempo si andava consumando una sconfitta. Il Pd ha giocato a nascondino, ha occultatato tutto ciò del proprio patrimonio che potesse essere ricondotto alle parole della sinistra. In questa stagione della politica italiana, in questo tornante della politica europea e in questa drammatica fuoriuscita ancora in corso dal Novecento, c'è una necessità vitale di immettere un'analisi e una strategia che vadano alle radici del passaggio d'epoca. Questa è la radicalità di cui abbiamo bisogno: non una radicalità parolaia, agitatoria, organizzativistica, minoritaria. Serve un cantiere aperto, un partito del coraggio, una comunità che non ripiega sul proprio ombelico.

Quanto al Pd, chi ti critica dice che il processo costituente d'una grande sinistra ne sarebbe necessariamente subalterno.

Ci sono molti modi di essere subalterni: per esempio un'opposizione fatta di vuoto estremismo è sicuramente un regalo al Pd. Avere interlocuzione politica nel campo delle forze democratiche è il contrario della subalternità. Vorrei ricordare che Gramsci invitava a coltivare curiosità per le ragioni dell'avversario, persino per cercarne la verità interna. E che il tema della coalizione anche con le forze borghesi a mia memoria per primo l'ha posto uno che si chiamava Karl Marx. Come ci comportiamo, se si apre una dialettica interna al Pd su temi dirimenti, per esempio di fronte al tentativo di uccidere l'autonomia del sindacato in Italia? E se il Pd dovesse convergere con la Pdl su una legislazione da "sorvegliare e punire", dando forma al delirio securitario, per noi sarebbe un vantaggio? E se invece fa una battaglia politica differente, per contrastarla, sarebbe per noi uno svantaggio? Non è che siamo più forti se siamo da soli a gridare. Non siamo il Battista, che grida nel deserto perché lo sentiranno nei secoli a venire; un partito comunista il deserto lo attraversa per arrivare alla città, perché deve riorganizzare la speranza, perché la voce deve darla a molte e a molti.

Senti, Niki: non avverti la necessità di rispondere anche ad un altro genere di paura che scorre nella comunità-Prc e anche fuori, ossia che si divida ciò che già è stato sconfitto? Come rispondi?
Mi rivolgo alle compagne ed ai compagni per dire: tutti insieme mettiamo al bando tra di noi tutto ciò che non è politica e che invece appartiene alla militarizzazione del confronto. E non consideriamoci esaustivi della sinistra. Per mostrarcene coscienti, apriamo una campagna di tesseramento. A chi all'esterno è sgomento per la scomparsa della sinistra politica, che si è materializzata, chiediamo un gesto importante: è il momento di allargare Rifondazione comunista, chiediamo che ci sia una nuova leva di iscritte e di iscritti che ci aiuti a trovare la strada. E soprattutto apriamoci all'esterno. Non possiamo discutere oggi chiusi in una stanza, ma spalancati all'esterno, alle realtà giovanili, al volontariato, al sindacato. Senza questi mondi vitali non valiamo più d'un cactus . Abbiamo bisogno di ossigeno, di relazioni ariose. Una sinistra di "duri e puri", che s'accontenta di percentuali da prefissi telefonici, a qualcuno può interessare, a me no: m'interessa un soggetto, anzi un insieme di soggetti che diano rappresentanza a quel che dal sistema di potere non è più previsto l'abbia. Una soggettività che dia voce alla precarietà dell'esistenza, ben oltre il lavoro. Vedi: quando c'è una sinistra che almeno prova ad essere così, ci possono essere anche altre mille piccole esperienze minoritarie. Al termine dell'onda degli anni 70, quando c'era il Pci, vi era una costellazione di piccoli gruppi. Ma noi, oggi, è proprio una grande sinistra di popolo che dobbiamo costruire, per il futuro.

13/05/2008